Lei oggi può valutare l’argomento da una prospettiva panoramica. Come vanno le cose a livello europeo? Quale importanza ricoprono oggi i festival del cinema? Sono ancora una spinta, un pungolo, verso la qualità?

«Premesso che ho preso una pausa da tutte le altre collaborazioni di questo tipo, proprio per potermi concentrare al 100% su Locarno, per me c’è una risposta netta alla domanda: non ci sarebbero i festival senza cinema, ma senza i festival il cinema sarebbe “meno cinema”. Come si traduce ciò a Locarno? Abbiamo pensato a un programma mosaico, che creasse un luogo al quale si può accedere da più punti contemporaneamente. Un festival dove lo spettatore può trovare sempre qualcosa che attivi in lui il piacere della scoperta, la gioia nel confrontarsi con qualcosa che non conosce. Nel Festival si trovano grandi blockbuster e pellicole molto personali e individuali di cineasti particolarmente creativi. Tutto da godere anche attraverso il ritorno all’esperienza collettiva del cinema. Spero così di riuscire a restituire il momento storico che stiamo attraversando: fino al 2019, non ci rendevamo conto che le cose stavano cambiando. La pandemia, colpendo le sale e i festival, ha fatto emergere lo schema della trasformazione del consumo delle immagini, dove basare tutto su un film dalla mega produzione, per il quale si sperano enormi incassi al botteghino, non basta più. Dove stanno i festival in questo sistema? Le kermesse hanno lo scopo di rendere conto della diversità delle produzioni, di aprire possibilità di conversazioni potenziali».

Qual è la caratteristica che rende il Locarno Film Festival diverso dalle altre manifestazioni legate al cinema?

«Locarno è un festival internazionale dalla lunga storia, calato nel tessuto cittadino di un piccolo centro geografico del Ticino. Un festival internazionale che fa parte della vita dei cittadini e che diventa l’evento chiave di una regione. Così la manifestazione vive all’interno di un contesto locale, transregionale e internazionale. I divi sono calati nella città vivibilissima, a fianco delle persone, non nella grande macchina dei protocolli: vivibilità e prossimità fanno parte della storia di questo festival. Rapporti più umani e immediati, masterclass, chiacchierate… tutte cose che in altri festival con scadenze più serrate non sono possibili. A Locarno le persone sono rispettose, non assaltano i protagonisti, i giovani cineasti riescono a creare relazioni per il prossimo film, i personaggi più d’esperienza possono chiacchierare tranquillamente, senza cerimonie, con chi apprezza il loro lavoro».

Anche tramite le sue pubblicazioni, Lei mostra interessi specifici in campo cinematografico, cosa porterà di queste passioni nelle prossime edizioni del festival?

«Credo nella firma del curatore, non amo i programmi neutri “di tutto un pò”, per non scontentare nessuno. Contemporaneamente però sono certo che quando si inizia a lavorare sul festival, pur portando il vissuto professionale e umano, sia necessario mettere i piedi fuori dal perimetro del proprio sguardo: il festival si inizia a pensare come discorso critico dal momento in cui ci si lascia tutto alle spalle. Sia gli organizzatori che il pubblico, quando provano piacere? Quando il film li conduce in un luogo che non conoscono, quando si perdono in territori nuovi. Questo nella pratica si traduce nel fatto che se un film mi accompagna su strade che mi sono già famigliari, non lo porto al festival, anche se mi è piaciuto. Lo scopo è sempre perdersi in nuovi territori. Anche per questo, per dare spazio a un cinema dagli intenti più avventurosi, con espressioni singolari, abbiamo pensato al fuori concorso, dove trovano spazio anche le pellicole sperimentali. Così, la relazione è equa, anche noi ci mettiamo in una situazione di incertezza: scegliendo un film che ci conduce fuori dal perimetro, restiamo in attesa della reazione del pubblico, che non può essere scontata. Questa relazione emotivamente equa mi appassiona moto, è base per il dialogo».

Italia e Svizzera, un cinema d’immensa tradizione e uno giovane e vitale, che recentemente abbiamo visto incontrarsi in pellicole poi amate non solo dal pubblico ma anche dai “tecnici”. Dal suo osservatorio di critico d’esperienza, come vede il futuro di questo rapporto?

«Io mi auguro che queste due realtà si incontrino sempre di più per creare un legame più stretto e di prossimità, in particolare tra Ticino e Italia: La Svizzera porterà questo desiderio e questa inquietudine di scrivere nuovi mondi e l’Italia un po’ del suo spirito avventuriero, quello che le ha fatto creare grandi capolavori del passato. In questa unione così vitale, ricca di spiriti tumultuosi, vedo la tempesta perfetta».