Ce ne fosse bisogno, ecco la conferma che l’arte va a braccetto con la vita. Compagna ma soprattutto maestra. In grado di indirizzare gli eventi, di tracciare la direzione, di scavare una traccia, di cavalcare un destino. Irena Dragova è nata a Burgas, cittadina turistico-industriale della Bulgaria sulla costa orientale del Mar Nero, attraversata dai fasti e nefasti della storia. Snodo cruciale sul piano geografico, ci sono passati traci, greci, persiani, macedoni, romani, ottomani, goti, bizantini e finalmente bulgari. Tutti hanno lasciato e preso qualcosa, dando vita ad un’identità stratificata e complessa ancora oggi, dove però «ogni volta che ci torno il canto dei gabbiani ed il panorama dei campi di grano che guardano sul mare, mi aprono il cuore». Proprio questo accenno di poesia e di nostalgia innestato su una storia fragorosa e che non fa sconti, come l’adolescenza sotto il regime comunista, connotano il presente di Irena Dragova, che dalla metà degli anni ’90 si svolge in Svizzera, in Ticino. Dove ha trovato modo intanto di posizionarsi sul piano professionale – laurea in economia aziendale, specializzazione marketing – e finalmente di dedicarsi all’arte, realizzando il sogno che si portava da sempre nel cuore. Ha seguito le tappe di una robusta formazione, corsi e stages tra Italia e Svizzera tra cui alla Scuola di Scultura di Peccia, ha iniziato a creare e a perfezionare la sua strada («che mi ha permesso finalmente di esprimere al meglio il mio mondo interiore») dedicandosi alla scultura. «Amo quello che faccio, e lo faccio con grande entusiasmo e passione».

Aggiungerei convinzione e competenza, visto che le sue sculture sono per così dire firmate. Ossia inequivocabili, fortemente sue, contraddistinte da tratti sicuri, inconfondibili. Nel gioco dei raffronti, nella ricerca di ascendenze e derivazioni, di punti di riferimento e di maestri, ne esce con i tratti della sua originalità. Evidentemente la Svizzera s’è rivelata per lei un ottimo punto d’osservazione sull’arte anche contemporanea, immersa com’è in una sua grande storia artistica e nell’attenzione critica a quanto le succede dentro e attorno. Anche qui Irena Dragova ha trovato quell’intreccio di conflitti e pacificazioni, quell’alternarsi di incontri e scontri che ne hanno definito l’identità. Ma soprattutto nel delicato equilibrio di questa nostra complessità culturale ha maturato la convinzione che sì, era possibile percorrere una propria strada espressiva, individuare attraverso l’opera d’arte una sorta di conciliazione tra i tanti elementi fra loro in conflitto. Che era ed è possibile mettere ordine all’interno di quel guazzabuglio in cui coesistono ragioni storiche e personali, emotive e razionali, e tutte cercano di manifestarsi, in qualche modo di prevalere.

I riconoscimenti ricevuti dicono che è sulla buona strada, ma ancor più lo conferma il fatto che continui a ricercare, ad approfondire la storia dell’arte, a sperimentare con accanimento, a credere che la speranza è nell’opera. Allora si butta sulla materia, creta, gesso o cera che sia. La lavora, la modella, la liscia, l’allunga, la comprime, ci lascia i segni. Poi la fonde in bronzo. Nella definizione mentale delle sue opere riesce ad inserire caparbiamente un elemento tattile, che diventa distintivo. Un fondamento manuale, artigianale molto forte, attraverso il quale conferisce un’impronta alla propria idea. Così che la portata simbolica ed interiore, sempre presente nelle sue sculture, abbia come un aggancio forte, indissolubile con la realtà, con i giorni e i luoghi, con il territorio (“Revenant”). Come quelle grandi, nodose mani allungate, (“Father’s Hand” ma anche “Femscale”) che ad un tempo creano contrasto ed equilibro nelle figure; quegli arti allungati, filiformi, braccia e gambe come fili sospesi, come lati ed angoli di figure geometriche (“Pierluigi”), come sostegni a teste schiacciate e volti attoniti che scrutano e cercano la direzione. Talvolta sostenuti da elementi circolari, da ragioni ben fondate, tali da permettere equilibri più stabili (“Hanged Man”). Poi le sue figure umane sono anche territori ed animali (interessante e coraggioso il caso di “Ibrida”), hanno in sé delle metamorfosi, viene in mente Ovidio e Kafka in quel continuo andirivieni storico, che è uno degli elementi fondamentali delle strutture in bronzo di Irena Dragova. Cosicché la tecnica del modellare il bronzo, in cui Irena Dragova si rivela finemente esperta, nelle sue opere trova una conciliazione formale ben equilibrata con elementi più essenziali e familiari come il cerchio, che mantiene la sua valenza simbolica mentre diventa un elemento strutturale assorbendo e distribuendo il tormento di un modellare intenso e profondo.

Le sue figure sono corpi in evoluzione. Mentre diventano espressione di atteggiamenti e soprattutto di stati d’animo, di tormenti ed emozioni, di quella lotta quotidiana che è il vivere, al tempo stesso cercano conformazioni nuove, modi di esprimersi più confacenti, come alla ricerca di sottili equilibri all’interno dei quali prendono il sopravvento parti precise della figura umana: il busto, il torso, il dorso, l’addome… Per dire che quella di Irena Dragova è sì una ricerca di tipo formale e strutturale (quei punti che sono teste, quei fili che sono arti, quelle mani che sembrano ventose e porzioni di territorio, quei dorsi lucidi e diversamente patinati che richiamano riferimenti tecnologici…), ma è soprattutto un approfondimento di tipo filosofico. È una risposta alle sue domande esistenziali. È la declinazione del suo continuo porsi domande (come nel caso di “Regret” o di “Man of the Moon”). È l’acrobatica soluzione strutturale ed anche un po’ poetica a temi eminentemente moderni come la solitudine (“Falling Moon”), le domande sul tempo e sullo spazio, sul desiderio e l’incapacità-impossibilità di vedere e capire le cose (“Blind Man”).

I bronzi di Irena Dragova non cessano di interrogarsi, di cercare soluzioni, di trovare risposte per domande esistenziali. Sono eminentemente moderni proprio nella loro metodica ricerca di motivi per cui valga la pena di vivere e, vivendo, di realizzare sé stessi.