La carriera di Boldini è stata singolare e in costante evoluzione, anche perché di fatto egli fu un autodidatta senza studi accademici ma certamente nutrito e seguito da alcuni importanti artisti-maestri anziani in Ticino e poi aprendosi sempre a un continuo confronto, ricco di influenze, con alcuni grandi nomi dell’arte contempranea e del passato.

La mostra ha il merito di restiture la giusta attenzione a un artista che ha abitato con la sua lunga vita quasi tutto il Novecento (nacque con il secolo, morì nel 1989) e ha assunto una propria personalità rocnoscibile e persino ben godibile. Un delle sale è dedicata agli amici “di penna e di pennello”: infatti è stupefacente oggi annotare come fra gli anni ’50 e ’80 fosse nata in Ticino una sorta di circolo spontaneo, solidale e fervido, fra artisti e scrittori nostri che tessevano rapporti di amicizia vera, di stima, di consigli e presentazioni reciproche.

«L’uomo Filippo Boldini – racconta Alessandra Brambilla – dotato di signorilità e discrezione, ebbe tuttavia la quieta e appartata vita ferita da un aspro dolore: egli conobbe la prova durissima di perdere una figlia unica molto giovane, avuta con la compagna e poi moglie Maria Juon, detta Marily, di 12 anni maggiore di lui. Nel 1927 alla coppia era nata una bambina, Anna, detta Annaly. L’artista amò naturalmente molto quella figlia e molte volte la ritrase, cogliendola nelle varie età. Purtroppo la ragazza fu colpita, ancor prima dei vent’anni, da una terribile forma di malattia degenerativa con paralisi e i genitori la videro soffire e spegnersi a soli 26 anni, nel 1953. Proprio per sottolineare quel capitolo privato così doloroso della vita di Boldini, la mostra di Rancate ha voluto dedicare una sala alla ragazza, intitolata “La dolce Annaly” e in cui si ammirano i ritratti che Boldini fece della figlia. Questo amore di padre trasmutato dalla tavolozza e dalla cretività alla dolcezza delicata della ragazzina e poi della giovane donna assume agli occhi dello spettatore d’oggi una tenerezza emozionata proprio perché quella ragazza così presente e vivente testimoniata sulla tela morirà a soli 26 anni lasciando un vuoto incolmabile nel cuore dell’artista. Questa ferita grave forse fu elaborata, medicata e in qualche modo pacificata negli anni proprio attraverso quella che potremmo definire una sublimazione dentro la fatica e il compimento dell’arte: certe lievità ariose di luci e colori, certa delicatezza di toni e ritmi, certi allargamenti chiari di respiro sui paesaggi sembrano invocare e forse raggiungere una malinconica quiete interiore. Occore aggiungere che nell’ultima parte della vita Boldini (rimasto vedovo a 73 anni, vivrà ancora sedici anni) introduce a sorpresa nei soggetti della sua pittura anche la figura del teschio, abbinata alla trasparenza di vetri fragili e chiari a significare il drammatico contrasto dell’esistenza fra vita e morte. Un quadro presenta, seduta accanto al teschio, la figura di una giovane ragazza: come non pensare al perdurare, anche in età avanzata, della memoria dolorosa della giovane vita della figlia rapita dalla morte? Ma in generale la complessiva opera di Boldini possiede una sua grazia delicata, con tenui armonie di colori, luci e forme che sembrano quasi trascendere, nell’ineffabile mistero dell’arte, la durezza cruda del vissuto».

Come si situa Filippo Boldini nella realtà artistica ticinese del Novecento? Si può attribuirlo in qualche modo a un gruppo, a una corrente, a una appartenenza anche vaga a qualche “scuola” pittorica? O fu un solitario?

«Negli anni in cui è stato attivo Boldini erano nati nel Ticino diversi gruppi e sodalizi artistici, dalla durata varia, come I Solidali, il Gruppo Terrarossa, il Gruppo della Barca, ai quali però il nostro non ha mai preso parte. Non è corretto tuttavia definirlo un solitario, in quanto diversi dei partecipanti diventeranno suoi amici e lui amava frequentare una seppur selezionata cerchia di essi. Ha comunque sempre mantenuto una sua linea autonoma, frutto delle sue riflessioni. Come ha giustamente rilevato Piero Bianconi nel 1959, «Boldini medita e dipinge in vista della poca acqua del Cassarate, conosco quel suo studiolo lustro e pulito come il salottino buono d’una donna di casa, odoroso d’ordine se si può dire, senza l’ombra di romanticheria bohème o di estetismo; come del restolui il pittore, nessuna posa esterna, ma una dedizione mirabile alla sua vocazione di artista […] con un che quasi di monastico, di ascetico […]; Boldini assomiglia alla sua pittura”. Naturalmente si confrontava con i grandi nomi della storia dell’arte, come era solito egli stesso ricordare: il Quattrocento toscano con Beato Angelico e Masaccio, Cézanne, Braque, Giorgio Morandi, Carlo Carrà e il Novecento italiano, riuscendo però sempre a trovare una propria via originale e intimamente sentita, che corrispondesse alle istanze del suo animo».

Quali sono, in breve, i pregi, le peculiarità tecniche ed espressive e il merito pittorico di Boldini?

«Boldini compie una evoluzione continua nel corso della sua lunga vita, mai pago dei risultati raggiunti e sempre pronto ad approfondire la sua ricerca artistica. Le opere forse più conosciute, quelle che tutti hanno negli occhi e nel cuore, appartengono all’ultimo tratto del suo percorso, quello successivo alla fama raggiunta intorno ai sessant’anni, e che ci portano a una tendenza alla scomposizione delle forme sempre più marcata coniugata, negli anni Ottanta, a uno schiarirsi della tavolozza. Non nel disegno ma nel colore si rintraccia il suo campo espressivo di riferimento, mentre per quanto riguarda i temi, la rappresentazione dei fiori – di campo, umili, delicati – è una costante che lo accompagna per tutto l’arco della sua carriera artistica. Ad essi si accostano ritratti, nature morte, paesaggi, tutti rigorosamente ticinesi: testimonianza del suo affetto sincero per il territorio, che diventa struggente di fronte alla sua distruzione in nome del progresso».

Si è parlato di un Boldini appartato, discreto, silenzioso. Sembrerebbe il segno distintivo di un certo isolamento, persino di una solitudine, però la mostra in pinacoteca Züst rivela una trama non formale e non convenzionale di rapporti fervidi sul piano culturale.

«Questo è proprio uno degli aspetti che sono stati maggiormente indagati in mostra e nel saggio che ho pubblicato in catalogo. Si ripetono sempre, per Boldini, gli aggettivi da lei citati. Eppure già Barzaghini aveva rilevato che «a essere scambiata per volontà d’isolamento era soltanto la sua incapacità di prender parte alla vita mondana». Era riservato Boldini, amava la tranquillità della sua casa-atelier in viale Cassarate 6 a Lugano, la compagnia discreta della moglie e i suoi affetti, pochi, ben selezionati, ma profondi e sinceri. Non era isolato Boldini. Al contrario, si trova al centro di una rete di rapporti di stima e amicizia con tutti i principali attori della scena culturale ticinese dei suoi anni. Chissà, forse era la signorilità che traspariva dai suoi modi, la serenità malinconica del suo piglio o la serietà nell’affrontare la questione creativa, fatto sta che critici, poeti, storici, tutti lo rispettavano e trattavano con deferenza, da Bianconi a Gilardoni, da Giorgio Orelli a Remo Beretta, da Mario Agliati ad Adriano Soldini, solo per citarne alcuni. Da non dimenticare anche gli intensi rapporti con gli altri artisti – che si sostenevano, anche sulla stampa, e talvolta si ritraevano a vicenda – tra cui Giuseppe Foglia, Carlo Cotti, Mario Bernasconi, Pietro Salati, Mario Moglia, Giovanni Genucchi, Ubaldo Monico, Nag Arnoldi. Anche la diceria secondo cui aveva partecipato a poche esposizioni è stata definitivamente sfatata: in calce al catalogo pubblichiamo il corposo elenco delle rassegne alle quali ha esposto, redatto da Mariangela Agliati Ruggia».

Quale il criterio espositivo adottato per questa mostra, e con quale motivazione e proposito l’avete scelto?

«Dopo le prime sezioni introduttive, che inquadrano la formazione e la rete di rapporti con intellettuali e artisti – si espone una nutrita serie di opere che lui aveva loro donato, spesso con una dedica, e che quasi sempre vengono presentate al pubblico per la prima volta – in mostra si incontra una sala che indaga un aspetto finora poco conosciuto dell’attività di Boldini, ovvero la sua partecipazione a concorsi pubblici per decorazione murale, soprattutto attraverso una quindicina di bozzetti inediti appartenenti a una collezione privata. Grazie agli studi condotti in questo frangente da Cristina Brazzola, è emerso come anche Boldini, al pari di molti colleghi, abbia cercato di sfruttare le occasioni lavorative fornite da questo genere di produzione, in anni non facili per ottenere commissioni e piazzare sul mercato le proprie opere. Il nostro si mette in gioco, partecipa e spesso ottiene riconoscimenti, classificandosi ai primi posti. Non riesce però mai ad aggiudicarsi un incarico. Il percorso prosegue con una sezione dedicata alla figlia Annaly, morta a soli ventisei anni e ritratta a più riprese dall’affettuoso padre. Infine, la “sala delle capriate, organizzata tematicamente, accompagna il visitatore attraverso il cospicuo corpus di opere di proprietà del Comune di Paradiso e del MASI. Si è deciso di compiere questa scelta per valorizzare le importanti donazioni che il pittore ha fatto al suo Comune di origine (circa duecentottanta dipinti e disegni, oltre a quattro sculture), alla Città di Lugano e allo Stato del Cantone Ticino, affiancandole ad alcuni dipinti acquistati da queste ultime due istituzioni nel tempo. Ne esce un quadro a nostro parere completo dello sviluppo dell’arte di Boldini attraverso i decenni. Nel catalogo abbiamo pubblicato l’inventario a colori di tutte le opere oggetto dei lasciti del pittore alle collezioni pubbliche luganesi».

Come si “costruisce” una mostra su temi come questo? Ci racconti un po’ i “dietro le quinte” del vostro lavoro…

«Come sappiamo Boldini non era certo un pittore sconosciuto prima di questa rassegna: era infatti già stato oggetto di mostre e pubblicazioni. Il nostro lavoro è quindi ripartito dalle fonti, con l’intento di fare chiarezza sulla sua personalità umana e artistica. Abbiamo quindi svolto lo spoglio completo dei quotidiani, alla ricerca della benché minima notizia che ci aiutasse a gettar luce su aspetti inediti, abbiamo consultato gli archivi – l’Archivio di Stato e quello del pittore, di proprietà del comune di Paradiso e conservato a Villa dei Cedri a Bellinzona –, ci siamo confrontati di persona con chi aveva conosciuto il pittore, contattando gli amici e i loro discendenti. Ne è emerso, come abbiamo visto, un quadro ricco e variegato che ci permette oggi di conoscere più da vicino e in modo approfondito l’artista. In fin dei conti, il nostro lavoro assomiglia da vicino a quello di un detective, pronto a seguire le più labili tracce per scovare dati anche minimi che costituiscono però tessere fondamentali per la ricostruzione di un puzzle».