Lei è Vescovo Emerito ma per buona parte della popolazione ticinese resterà sempre Don Grampa. Come è stato possibile conciliare gli importanti incarichi rivestiti nel tempo con il suo lavoro educativo e il suo essere, fin in fondo, un prete umanista?

«Quello che lei mi chiede fa onore ai ticinesi, che non confondono la persona con la funzione. Prima che per quello che uno ha fatto dev’essere ricordato per quello che è. Per me poi gli incarichi rivestiti sono stati conseguenza di una chiamata, frutto di una vocazione. Non ho scelto io di fare il prete, l’educatore e il Vescovo. Sono stato chiamato, ho cercato di rispondere di sì e di svolgere con autenticità i servizi richiesti, senza rinunciare ad essere quello che sono, sempre in cammino di conversione».

Da più parti si sente dire che dopo la pandemia non saremo più gli stessi di prima. Ritiene che sia soltanto un luogo comune o intravvede segni più duraturi di un profondo cambiamento?

«Il cambiamento, più che dalla pandemia, dipenderà dalla saggezza delle persone, che imparano presto, ma dimenticano ancora più in fretta. C’è da augurarsi che si sappiano trarre tutti gli insegnamenti contenuti non solo nella terribile, pesante esperienza della pandemia, ma anche da altri fenomeni come ad esempio il degrado ecologico, lo sfruttamento insensato delle ricchezze della natura per calcoli economici, le migrazioni dei popoli, la gestione dei nuovi mezzi di comunicazione, la ripresa delle ambizioni spaziali, il non sopito scontro religioso o ideologico…al quale tenta di ovviare Papa Francesco con la sua Terza Lettera Enciclica, Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale. Sono tanti i segni che dicono di un profondo cambiamento in atto, il cui esito dipende dalla saggezza degli uomini e delle donne, delle persone, che ne devono essere protagonisti e non succubi».

In che misura ritiene che il Pontificato di Papa Francesco rappresenti un punto di svolta dopo il quale la Chiesa non potrà più essere quella dei decenni precedenti?

«Innanzitutto dobbiamo riconoscere a Papa Francesco l’intuizione che il nostro tempo non è tanto un’epoca di cambiamenti, ma piuttosto un cambiamento d’epoca. Nel discorso alla Curia Romana dello scorso mese di dicembre, prima dello sconquasso del Covid-19, affermò che: “quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamento, ma è un cambiamento di epoca”. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; impongono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la Fede e la scienza. Mi permetta un esempio: entreranno in vigore alcune modifiche ai testi della Liturgia della Messa, cambiamenti sui quali lavorano gli esperti da vent’anni, e sul cui risultato non ho niente da obiettare, ma non dobbiamo dimenticare che la prima conseguenza di questo cambiamento d’epoca è che non possiamo dare più per scontata l’esperienza della Fede. E questo comporta interventi ben più profondi ed anche impone tempi più veloci. Si ricordi ciò che rilevava il Cardinal Martini sui 200 anni di ritardo della Chiesa.
Infatti dice ancora il Papa: “Fratelli e sorelle, non siamo più nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale… Non siamo più in un regime di cristianità, perché la Fede, specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente, non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata”. Posso solo esprimere un augurio, che certe acquisizioni di uno stile di vita e di testimonianza datici da Papa Francesco, più conformi al Vangelo, anche nelle loro acquisizioni di semplicità, di modestia, di umiltà, di autenticità, possano venire mantenute, interpretate secondo la personalità propria di ogni Pontefice, ma che non sia più copia dei sovrani della terra. Lo chiede espressamente Gesù nel Vangelo. Si veda ad esempio Matteo 20, 25-28: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i   grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere fra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo. E colui che vorrà essere il primo tra voi si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti».

La donna e l’uomo contemporanei sembrano essere sempre più spesso posseduti da demoni che ne condizionano spiritualità e comportamenti. Come ci si può liberare da queste minacce che allontanano dalla religione e mettono in pericolo la libertà di spirito e di pensiero?

«Vogliamo ascoltare ancora cosa ci dice Papa Francesco: “Il nostro non è un tempo di fondatori, ma di riformatori”, in cui si esprime bene il fatto che non abbiamo bisogno di geni solitari, ma di Chiese che si mettano in movimento assieme, con un cammino sinodale (cioè fatto assieme), innanzitutto per cogliere i segnali di un nuovo inizio, cioè di cambiamenti che sono indicatori di un nuovo modo di rapportarsi con l’esperienza della Fede. Ad esempio l’attuale organizzazione della Chiesa, centrata sull’Occidente cristiano, viene messa in discussione dall’espansione del cristianesimo in continenti e territori nuovi, finora considerati periferici, ma che Papa Francesco riconosce dando loro rappresentanza nel Collegio dei Cardinali e cercando una nuova organizzazione della Curia papale. Anche l’organizzazione della pastorale parrocchiale, che nelle forme attuali è conseguenza del Concilio di Trento, chiede di venire rivista di fronte ai fenomeni rilevati dai sociologi religiosi. Si vedano a questo proposito gli studi di: C. Giaccardi-M. Magatti, La scommessa cattolica; Franco Garelli: Gente di poca Fede, o anche il teologo Matteo Armando: La Chiesa che manca, Il Vangelo nel tempo, La prima generazione incredula.

Non diversamente, il nostro Vescovo, nella sua ultima Lettera pastorale, Ripartire dal cuore, invita a riflettere sul nostro essere Chiesa e propone di far sorgere quelli che lui chiama “laboratori di speranza”, nella convinzione che fare ministero non coincide con l’adorare la cenere, ma custodire il fuoco, come scrive il servita Ermes Ronchi, per questo occorre coraggio: mettere il cuore, dare il cuore per ripartire».

Lei ha sempre rivestito un ruolo di docente prima nel Collegio Pio XII di Lucino e dal 1965 quale vicerettore al Papio di Ascona. E poi ancora quale rettore, dal 1979 al 2003. Che cosa vuol dire, nella società contemporanea, svolgere un ruolo di educatore nei confronti del mondo giovanile?

«Avvertire la complessità dell’impegno educativo; mettere in atto una serie di iniziative che aiutino ad introdurre i giovani nell’insieme complesso della realtà contemporanea. Educare è e–ducere, cioè condurre fuori dalla propria singolarità, dalle proprie chiusure, dai propri schemi, dalle proprie ambizioni, dai propri punti di vista, per confrontarsi con gli altri, per entrare nella realtà totale (in Gesamtwirclichkeit, dicono i tedeschi con termine efficace),  nella complessità dell’essere puntando sull’essenziale, puntando molto sulla libertà responsabile che sa dar ragione del suo essere, e non abbia paura di lasciare libertà nella pluralità delle forme, lingue, culture, storie, tradizioni, civiltà diverse.
San Paolo, scrivendo ai Galati (5,13), ricorda che ogni uomo è chiamato a realizzare la sua libertà: “In libertatem vocati estis”. Non si nasce liberi, si diventa liberi.
Ho letto con interesse, nella stampa del 31 ottobre, un’intervista a Vito Mancuso, dove precisa che la formazione delle nuove generazioni è sempre meno  educazione  e  sempre più istruzione, e precisa come istruire viene da in-struere, cioè preparare per, e noi prepariamo i nostri ragazzi per essere strumenti in una struttura – ospedaliera, bancaria, aziendale – si concepisce l’essere umano come ingranaggio di un meccanismo più grande; il che non è sbagliato, ma non è sufficiente,            perché l’essere umano è la sua interiorità, la sua capacità di pensiero critico e creativo, quindi non solo a servizio della struttura, ma anche capace di ribellarsi alla struttura, di saperla superare.
Certo occorre non confondere libertà con licenza, con permissivismo indifferente; libertà esige responsabilità, capacità di dare ragione, di motivare le proprie scelte, di riconoscere i propri limiti, di costruire cammini assieme. All’istruzione non interessa la libertà ma l’esecuzione; occorre ritornare all’educazione che fa crescere nella libertà, nella responsabilità, nella creatività».

Quando fu chiamato alla guida della Chiesa di Lugano, lei scelse il motto episcopale Patiens in adversis. Oggi, dopo oltre 60 anni di vita ecclesiale, come esercita la sua funzione al servizio di una popolazione che lo continua a riconoscere come il proprio pastore?

«Per favore non cadiamo nell’equivoco dei due Vescovi, come dei due Papi. Papa è uno solo: Francesco; ha precisato il cardinal segretario di Stato Parolin. Vescovo di una Chiesa è uno solo, da noi nella Chiesa di Lugano, si chiama Valerio. Evitiamo gli equivoci, peggio le contrapposizioni; è un pericolo conosciuto sin dalle origini del cristianesimo, basti pensare a Paolo, quando scrivendo ai cristiani di Corinto, nella sua prima lettera, parla delle divisioni di quella Chiesa (I Corinti 1, 10-12): “Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo’, ‘Io invece sono di Apollo’, ‘E io di Cefa’, ‘E io di Cristo!’”.
Circa il mio motto episcopale le racconto come avvenne la sua scelta casuale. Si stavano restaurando gli affreschi del coro della Chiesa del Collegio Papio di Ascona, e sotto la figura di San Gregorio Magno apparve questa scritta: Patiens in adversis. Un vicerettore disse che sarebbe stato un bel motto per il prossimo vescovo, io annuii, e quando mi toccò quel servizio la scelta era fatta, anche perché, conoscendomi, ero consapevole che sarebbe stato un motto opportuno, di una virtù alla quale l’apostolo Giacomo, nella sua lettera, non manca di fare l’elogio, usando tre diversi vocaboli per indicare il ricco concetto di pazienza cristiana: la resistenza interiore, la sopportazione del male e l’animo largo, l’ampiezza delle vedute e la forza delle lunghe attese. Mi aveva pure colpito la considerazione di Romano Amerio, che nel suo Zibaldone all’aforisma 59 scrive: “Il vocabolo pazienza è invilito e lo adoperiamo per i giochi di pazienza e simili cose non disoneste, ma insignificanti. Viceversa pazienza è l’espressione maggiore della virtù di fortezza, perché la forza che si chiede per resistere è maggiore di quella che si richiede per attaccare”.La figura del Vescovo emerito, di recente istituzione e che ritengo rispondente al contesto diverso della Chiesa oggi, deve essere ancora meglio elaborata. Ne scriveva l’arcivescovo emerito di Pisa, Alessandro Plotti, (Confessioni di un vescovo emerito, Edizioni Ancora), che non manca di porre il problema e sollevare interrogativi con umanità e passione, saggezza e schiettezza. Non è serio limitarsi a dire: “Adesso tu sta bravo, riposa, prega, leggi, studia e taci”. Se l’episcopato è uno dei tre Sacramenti (l’Ordine sacro) che col Battesimo e la Cresima imprime un carattere indelebile, non si può metterlo sotto naftalina, equiparare un vescovo al superiore di un ordine religioso non mi pare teologicamente corretto. In attesa che gli studi si approfondiscano, dipende dalla saggezza delle persone non sollevare equivoci e divisioni. Le occasioni non mancherebbero».

Lei si è battuto a lungo e tenacemente per evitare la chiusura del Giornale del Popolo. Come commenta ora la negativa conclusione della vicenda?

«Su questo punto per mettere in pratica quanto venivo dicendo, preferirei non rispondere. Leggendo i Vangeli mi ha sempre colpito l’atteggiamento di Gesù durante il suo processo, quando gli evangelisti ritornano con un ritornello: “Jesus autem tacebat”; Gesù taceva e non rispondeva nulla. Per cui preferisco non esprimermi, avrei troppe cose da dire, ma riaprirei ferite che è meglio lasciar guarire. Il giornale non andava più in quella forma, ma in un’altra? In un certo senso “res ipsa loquitur”, parlano i fatti, gli storici li analizzeranno, lasciamo tempo al tempo».

Da ultimo, lei è stato spesso criticato per le posizioni assunte verso una cultura dominante acritica e piegata a logiche disumane, non temendo di farsi nemici per annunciare il Vangelo. Ancor oggi Don Mino resta un maestro di dissidenza?

«No!  Non lo sono mai stato, perché di dissidenza?  Semmai di libertà, senza opportunismi, di fedeltà al Vangelo che è “proposta di contestazione verso una cultura dominante, acritica e piegata a logiche disumane”, come lei dice. D’altra parte anche qui il mio riferimento è al Vangelo, e Gesù dice: “Sono venuto a portare fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso” (Luca 12-49) e in Matteo 10-34: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”.
Sappiamo che una esatta esegesi mette nel giusto contesto le affermazioni e offre gli strumenti per valutarle nel loro insieme, ma condivido il giudizio del servita Ermes Ronchi che far ministero non coincide con l’adorare la cenere, ma custodire il fuoco».