Laurea in economia alla Bocconi, una carriera nel mondo della finanza, una grande passione per la cultura e per l’arte: chi è Simona Zampa?

«Mi sono laureata alla Bocconi nel 1993, ma studiare economia non era la mia passione. Appena laureata ho cercato di trovare lavoro in una banca di investimento, e sono finita prima alla Bank of America poi alla Merrill Lynch. Nel 1994, ho vinto la borsa di studio Stringher Mortara alla Banca d’Italia e ho passato alcuni mesi a Roma, in via Nazionale, frequentando il corso di preparazione per diventare coadiutore. Quando però mi hanno offerto un posto – anzi proprio il posto che avevo chiesto – mi sono resa conto che il lavoro non era fatto per me. Ho sempre trovato difficile adattarmi ad una struttura con regole molto rigide e burocratiche. Il mio sogno al liceo era quello di fare la poetessa come mia nonna, e passavo il tempo a e scrivere poesie. Mia nonna, Marí Garelli, era una brava poetessa che pubblicava con Guanda ed era stata tra i finalisti del premio Roma del 1949 con Ungaretti e Pasolini, una delle poche donne finaliste. Mi piaceva molto anche dipingere e avrei voluto studiare pittura all’Accademia di Brera, ma i miei genitori mi hanno spinto verso l’economia, e io non mi sono ribellata. Nel frattempo, mi ero iscritta ai corsi serali di pittura all’Istituto Cimabue, che era vicino alla Bocconi, e nel complesso ero felice di questo compromesso. Quando ho smesso di lavorare in banca, ho iniziato a fare illustrazioni per una casa editrice per bambini, e da quel momento piano piano mi sono sempre più dedicata all’arte. Adesso continuo in parte con le illustrazioni, ma soprattutto lavoro nel mio studio, dipingo, disegno, faccio collages. Insegno anche un corso di teoria del colore all’istituto i2a: una cosa che mi piace molto, perché trovo molto bello poter condividere con altre persone quello che ho imparato nel corso della mia vita».

Quali sono i riferimenti nell’arte da cui ha tratto maggiore ispirazione?

«Sono una grande amante del colore. Anche quando dipingo in modo figurativo, raramente faccio un disegno preparatorio, ma inizio subito dal colore. Negli ultimi anni, mi sono sempre più interessata all’astrazione. Ho studiato in profondità l’opera di Josef Albers. Guardo molto Richard Diebenkorn, Agnes Martin, Brice Marden. Tra gli artisti contemporanei, mi piace molto il lavoro di Chantal Joffe che mi fa pensare a Francis Bacon».

Quando ha deciso di dedicarsi alla filantropia e com’è nata questa passione?

«Mi sono dedicata alla filantropia negli ultimi 20 anni. Il mio contributo è soprattutto pratico. Ho dedicato il mio lavoro ad alcuni progetti in cui credevo. Mi rendevo conto che potevo essere utile ad una certa causa e l’ho fatto. Non concepisco la filantropia semplicemente come erogazione di fondi, ma piuttosto come volontà di portare avanti delle idee o sostenere dei progetti che mi sembrano importanti per la comunità in cui vivo».

C’è una persona che l’ha sostenuta in questo impegno?

«Mio marito è un grande filantropo nel vero senso della parola. Ha creato diversi anni fa la sua fondazione e ha sempre sostenuto l’importanza di restituire qualcosa – give back come dicono gli americani – alla comunità che gli ha permesso di crescere. Fin da quando eravamo molto giovani, con tanti bambini molto piccoli, lui ha sempre voluto donare una parte importante di quello che guadagnava. Era molto coraggioso e l’ho sempre ammirato per questo».

Quanto è importante il supporto della famigla per una filantropa come lei?

«È molto importante che la filantropia sia un tema condiviso da tutta la famiglia e che le decisioni siano prese insieme di comune accordo. Di recente, abbiamo ospitato a casa un giovane ragazzo rifugiato per alcune settimane. È stata la prima esperienza di questo tipo per noi, e ha coinvolto tutta la famiglia. È nato un bel rapporto di amicizia che mi auguro possa durare nel tempo, ma ci siamo resi conto che non è facile, specialmente quando ci si avvicina a culture molto diverse».

Ricorda la sua prima donazione? 

«La prima donazione che ricordo è quando abbiamo mandato dei fondi a suo zio che era un prete missionario in Congo e doveva costruire un dispensario».

Qual è il progetto filantropico della sua prima gioventù che più la rappresenta?

«Quando ero ragazza facevo la volontaria a Milano per la Giornata FAI di Primavera e per i Cortili Aperti. Mi ricordo la gente che entrava e usciva stupita da quei cortili verdissimi. Quando cammini per le strade di Milano, vedi tante facciate di pietra e di cemento, ma una fotografia della città presa dall’alto mostrerebbe alberi e aiuole, tutte nascoste tra le mura dei palazzi».

Quando ripensa ai suoi impegni filantropici, di cosa va particolarmente fiera?

«Sono felice di aver costruito qualcosa che prima non esisteva, ad esempio il FAI Swiss. I progetti filantropici che più mi rappresentano sono quelli in cui ho creato qualcosa con il mio lavoro».

Lei è Presidente del Consiglio di fondazione di FAI SWISS. Di cosa si occupa la fondazione?

«Ho sempre avuto grande ammirazione per l’attività del FAI in Italia e per la sua opera di tutela delle bellezze naturali e dei beni storici. Il grande merito del FAI a mio parere è stato soprattutto quello di divulgare a partire dagli anni ’70 una cultura di rispetto dell’ambiente, in un periodo contrassegnato in Italia dalle speculazioni edilizie e dagli interventi selvaggi sul paesaggio.

Il FAI Swiss è nato nel 2012 dalla mia amicizia con una donna molto in gamba che allora era presidente del FAI a Firenze. I miei bambini erano molto piccoli, e non ero convinta che fosse il momento giusto per impegnarmi in un progetto così grande, ma lei mi ha sostenuto nelle fasi iniziali e mi è sempre stata vicina. Credevo nell’idea del FAI e l’ho condivisa con un gruppo di amici che sono poi diventati le persone chiave del Comitato FAI Swiss, e lo sono tuttora. In un certo senso si può dire che la nascita del FAI Swiss sia stata una storia di amicizia, che adesso sta entrando nel suo dodicesimo anno di attività».

Quali sono i progetti più significativi della Fondazione?

Il FAI Swiss si propone di diffondere in Svizzera i principi fondanti del FAI che secondo me sono importantissimi per la nostra società: la preservazione del patrimonio artistico e culturale, dei beni e delle dimore storiche, e la protezione del paesaggio. Con il FAI Swiss, inoltre, abbiamo voluto creare un ponte culturale tra l’Italia e la Svizzera, due nazioni che condividono lingua, cultura e una parte della loro storia. Uno dei progetti che ci sta più a cuore è quello degli Apprendisti Ciceroni. Le nostre volontarie lavorano con le scuole, soprattutto le scuole professionali, per creare dei progetti in cui i ragazzi sono i Ciceroni incaricati di presentare il bene artistico ai visitatori o ai loro compagni di scuola. Questo per loro è un grande stimolo allo studio, alla conoscenza dei luoghi che li circondano e all’approfondimento culturale».

Sempre in riferimento al FAI, quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro della filantropia?

«L’idea della preservazione della bellezza tramandata dalle generazioni che ci hanno preceduto è alla base del FAI. Questo non significa che bisogna conservare tutto a tutti costi e che non si possa costruire niente di nuovo. Il concetto è che bisogna preservare i beni che hanno un valore non solo artistico, ma anche storico, culturale, e che rappresentano l’identità della comunità che li circonda. Porto spesso l’esempio dell’Antica Barberia Giacalone a Genova che è uno dei beni FAI».

Parliamo del suo impegno a favore della New York Philharmonic Orchestra. Di che cosa si tratta?

«Sono sempre stata molto appassionata di musica e anni fa un amico mi aveva proposto di entrare nell’International Advisory Board della NY Philarmonic, perché avevano bisogno di un ambasciatore in Italia e in Svizzera. È stata una bella esperienza e quello che ho imparato mi ha dato degli spunti di riflessione interessanti da condividere con le istituzioni musicali con cui collaboro in Europa. Il concetto di filantropia negli Stati Uniti è molto forte, e a mio parere non è legato solo ai benefici fiscali come spesso si sente dire. Quando si parla di donazioni che rappresentano parti importanti del patrimonio delle persone, e che a volte raggiungono le decine di milioni di dollari, credo che ci siano motivi più profondi che le ispirano. Credo che l’idea di donare sia soprattutto legata alla cultura di una persona che crede nell’importanza di restituire alla sua comunità una parte di quello che ha guadagnato durante la sua vita. Negli Stati Uniti, la filantropia è anche una necessità che nasce dall’assenza quasi totale di sostegno pubblico. In pratica, senza contributi privati, la maggior parte dei progetti si esaurireebbe. Un solo esempio: durante la pandemia, il contributo della città di New York alla New York Philarmonic è stato pari a zero. Ciò non ha paragoni con nessuna orchestra europea».

Quali consigli si sente di dare a una giovane filantropa che voglia intraprendere la sua strada?

«Credo che le strade della filantropia siano molto varie e che ognuno debba seguire il proprio istinto. Ognuno di noi ha nel cuore temi diversi e si trova in circostanze diverse per cui è difficile generalizzare. Una volta avevo letto che il lavoro che si fa gratuitamente per gli altri è quello in cui ci si impegna di più e che ci dà più soddisfazione. È forse questo aspetto di gratuità, del fatto di essere un gesto totalmente disinteressato, che rende la filantropia qualcosa di speciale in un mondo in cui sembra che ci debba essere un prezzo per ogni cosa. La filantropia ci fa ricordare che esistono delle cose che non hanno prezzo».