Ci sediamo al tavolo, rotondo, una scelta non casuale. Iniziamo subito a parlare della struttura e della filosofia che caratterizza la Banca Popolare di Sondrio (SUISSE) e lo stesso Presidente…

«Non è un caso che io abbia un tavolo rotondo in ufficio, per me è importante che ogni interlocutore si senta a proprio agio, questo nella quotidianità lavorativa, ma anche nella vita privata. Pensiamo al cliente che entra in banca, deve potersi sentire accettato e accolto da professionisti capaci di creare una relazione empatica, questa è la filosofia della nostra Banca».

Una filosofia personale che ha voluto portare anche sul posto di lavoro…

«Personalmente condivido questa filosofia, ma ricordo che la Banca Popolare di Sondrio (SUISSE) nasce per essere vicino alla gente e alle piccole e medie imprese, quindi il dialogo e la fiducia sono la base dei valori che da oltre due decenni stiamo portando avanti. Io sono cresciuto in questa Banca, ho fatto quella che si chiama “la gavetta”, iniziando dal basso e crescendo anno dopo anno. Ho dunque acquisito tali valori direttamente sulla mia persona, osservando e imparando da chi aveva più esperienza di me. Per quanto riguarda invece il mio modo di essere mi piace guardare le persone e analizzare le situazioni per capire l’ambiente che mi circonda. Non possiamo chiuderci nelle nostre quattro mura e dire che tutto va bene».

Il “fare la gavetta”, un percorso che caratterizza molti uomini di successo, ma oggi è ancora possibile fare questo tipo di carriera?

«Credo che sia possibile, ma va anche detto che è richiesto un livello di scolarizzazione sempre più alto e nettamente superiore rispetto a quando ho iniziato a lavorare io. Non dobbiamo dimenticare che un buon capo è colui che riesce a capire realmente il lavoro svolto dai propri dipendenti, quindi esserci passato ha indubbiamente i suoi vantaggi ieri come oggi».

Immagino che un bambino non sogni di arrivare ai vertici di una banca, cosa o chi l’ha portata a scegliere questa carriera?

(Sorride) «Effettivamente la finanza in generale fa fatica a muovere il cuore delle persone, forse per questo risulta poco attrattiva ai giovani. Se lavori in un’industria crei qualcosa, lo riesci a vedere, a quantificare, anche le persone accanto a te lo fanno, mentre nel nostro mondo è più difficile, eccezion fatta per i finanziamenti, ad esempio, di una casa; in questo caso ti interessi al cliente, lo aiuti a trovare la soluzione più idonea e al momento di stanziare un credito senti una sorta di soddisfazione, anche a livello umano. Comunque, tornando a me, è la banca che mi ha scelto (sorride). Sono nato in Valchiavenna, a San Giacomo Filippo, i miei genitori lavoravano in Engadina e io ho studiato ragioneria a Chiavenna. Appena finiti gli studi mi hanno offerto un posto in banca, come succedeva una volta ai miglior studenti, e io ho accettato».

Era un ragazzo già molto serio e disciplinato…

«Se intende dire che ero un secchione (ridiamo) non proprio. Andavo molto bene a scuola, questo sì, ma non studiavo molto, mi piaceva anche uscire e quando mi sono ritrovato nella frenetica Milano – mi creda – non è stato subito evidente, ma sono sopravvissuto (sorride).

A Milano inizia la sua carriera nell’ufficio internazionale e dopo pochi anni ne diventa il responsabile…

«Non nascondo che mi piaceva molto il lavoro e dunque mi sono subito impegnato a fondo, inoltre continuavo a studiare fino a quando mi sono detto: perché non approfittarne di questa mia passione per i libri e iscrivermi all’Università? Quando l’ho comunicato ai miei superiori e colleghi mi hanno guardato con una faccia un po’ strana, anche perché avevo già una posizione importante, per loro sembrava che stessi facendo una pazzia. Alla fine mi sono laureato in tempi ordinari e mi sono sempre rallegrato di questa scelta».

Quindi quando nel 1991 le chiedono di andare a Lugano cosa ha pensato?

«Che stavo benissimo a Milano (ridiamo), ma non potevo dire di no! Anche perché ho sempre avuto una visione istituzionale e dunque mi sentivo in dovere di accettare. Il progetto però era veramente agli inizi: a capo di un ufficio di rappresentanza dovevo studiare il mercato in vista dell’apertura di una nostra realtà operativa in Ticino. Nei primi sei mesi ho avuto diversi momenti di sconforto, ma sono riuscito a restare positivo e nel 1995 è stata creata la Banca Popolare di Sondrio (SUISSE) SA a Lugano, con sette persone, una start up per intenderci. A questo punto tutti i miei studi mi sono tornati utili, ho iniziato da zero affiancando il nostro primo Direttore, Gianni Meregalli, analizzato tutto, pianificato ogni dettaglio e soprattutto sono stato disposto a rimettermi in questione e imparare da chi aveva più esperienza di me e che conosceva bene il mercato locale ed elvetico. Quando nel 1999 è arrivato da Credit Suisse il Direttor Brunello Perucchi, da allora sono diventato il suo sostituto, abbiamo vissuto una nuova svolta. Il Direttor Perucchi ha portato l’impostazione della grande banca e noi tutti ci abbiamo creduto e lo abbiamo seguito; quando nel 2013 è andato in pensione diventando Vicepresidente del Consiglio d’amministrazione, mi sentivo pronto per presiedere la Direzione Generale. Un aneddoto divertente è che forse ero fin dalla nascita predestinato ad essere legato alla Svizzera, visto che sono nato il primo di agosto (divertito)».

Immagino che la sua carriera abbia fatto piacere anche chi ha creduto in lei fin da subito…

«Sì, anche perché Casa Madre di Sondrio mi ha sempre seguito, anche se a distanza, in particolare il compianto Presidente Piero Melazzini, colui che è stato capace di trasformare una “piccola” banca in un Gruppo rilevante nel panorama bancario nazionale. Ricordo che quando ho terminato l’Università ho pensato fosse confacente spedirgli una copia della mia tesi di laurea e il Presidente Melazzini, indubbiamente soddisfatto, ha fatto una circolare per comunicarlo a tutti i dipendenti con il titolo della tesi sul “modello di banca universale nel sistema bancario svizzero”. Non nascondo che mi sono sentito imbarazzato, perché non volevo farlo sapere a tutti, ma lui pensava di farmi piacere, perché in quel gesto aveva messo il cuore. È stato un presidente importante per tutti noi, i suoi dipendenti non erano mai dei numeri e da lui ho imparato molto».

È vero che la sua carriera è legata al successo, ma immagino non sia stato facile inizialmente come banca italiana ritrovarsi a Lugano…

«Ricordo come fosse ieri l’inaugurazione della Banca nel 1996, una volta trasferiti negli uffici di via Maggio. Come da prassi abbiamo invitato anche tutti i rappresentati delle banche presenti sul territorio e al termine della serata devo dire che mi sono sentito un po’ tradito… in molti mi dicevano che eravamo incoscienti a voler fare la banca universale e che avremmo dovuto concentrarci sul Private Banking per ottenere i migliori risultati. Probabilmente avevano ragione, ma le sfide fanno parte del percorso professionale di ognuno di noi. Ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo capito che dovevamo essere più aperti, mantenendo un basso profilo, ma coinvolgendo anche la popolazione locale, non sono gli italiani residenti in Ticino o i frontalieri. Oggi siamo presenti in otto cantoni svizzeri, oltre che nel Principato di Monaco, e ci rivolgiamo principalmente alla clientela del mercato locale. Non dico che sia stato facile, ma siamo riusciti a farci apprezzare per quello che siamo: una banca vicina al territorio e sensibile alle esigenze della gente e dell’economia».

Ma a Lugano si è trovato bene o ha vissuto ostilità durante i primi anni…

«Devo dire che mi sono ambientato facilmente, anche grazie alla presenza di mia moglie, che mi ha accompagnato. Nostro figlio è nato a Lugano ventun anni fa, quindi posso dire con serenità che ci siamo subito sentiti a casa, abbiamo nel frattempo acquisito la cittadinanza svizzera e sia a livello privato che professionale ho ormai vissuto più in Ticino che in Italia».

Immagino lei sia una persona esigente con sé stessa, e che la sua passione per il lavoro non le lascerà molto tempo libero…

«Non posso nascondere che lavorare mi piace molto, ma allo stesso tempo non mi lascio assorbire totalmente dal mio ruolo e mi ritaglio regolarmente degli spazi che dedico soprattutto a mia moglie e alla famiglia. È fondamentale trovare un equilibrio tra famiglia e lavoro, così come è importante capire quando la produttività cala. È inutile, dal mio punto di vista, restare in ufficio dodici ore – a meno che non ci sia una consegna importante – e non riuscire a rendere al massimo, meglio fermarsi, rigenerarsi, e ricominciare con la giusta energia e lucidità il giorno dopo».

Cambiamo argomento, tempo libero, cucina, non le mancano i piatti saporiti di Chiavenna?

«Ho ancora un legame famigliare a Chiavenna, dove vado regolarmente a trovare mia mamma e devo dire che da quando sono partito tutti i cibi tipici hanno acquistato valore. Quando siamo abituati a qualcosa diamo tutto per scontato, per questa ragione è importante continuare ad apprezzare le ricchezze territoriali. Ricordo con un sorriso un mio cliente che arrivando a Lugano mi ha detto: “Qui avete tutto vicino, le montagne, il lago, è incredibile”. Effettivamente è così, ma quanti di noi se ne rendono conto?».

Dopo una pausa riflessiva torniamo a parlare dei dipendenti della banca, di quanto sia importante per l’economia locale avere delle persone che amino il proprio lavoro.

«Penso che il personale debba sentirsi parte integrante della Banca e condividerne la filosofia per poter dare il meglio. L’imprinting viene dato da tutti i miei dipendenti, non solamente da me o dai direttori, perché sono soprattutto loro che incontrano i clienti o un qualsiasi partner: ogni attività è importante ed ogni figura all’interno dell’azienda ha un valore. Chi lavora da noi deve poter apprezzare la nostra visione sul mondo e sul mercato, deve potersi indentificare per essere credibile nei confronti dei clienti».

Ma trova che al giorno d’oggi sia difficile trasmettere questi valori ai giovani?

«Penso sia sempre più difficile effettuare colloqui di lavoro efficaci, alcune volte si ha l’impressione che non conti trovarsi bene sul posto di lavoro, basta avere uno stipendio a fine mese, mentre invece il “sentirsi vicino alla propria azienda” dovrebbe essere un requisito e non un compromesso. Lo dico pensando ai giovani, al nostro futuro, penso che sia importante dare loro nuove opportunità, ma per farlo bisogna avvicinare la nuova generazione alle banche, offrire loro posti di lavoro interessanti e stimolanti. Da parte nostra, lo dico con grande soddisfazione, abbiamo molti collaboratori di lunga data e questo è un primo segnale importante per una banca, significa che si trovano bene e che stiamo andando nella giusta direzione».

Non pensa che le banche abbiano un futuro segnato?

«Dal punto di vista dei numeri aggregati siamo rimasti la terza piazza finanziaria svizzera, però quello che abbiamo perso, almeno in parte, ed è tangibile, è l’essenza della piazza, perché sono diminuiti i centri decisionali. Ma questo non significa che dobbiamo disperarci in seguito alle fusioni, alle razionalizzazioni e smobilitazioni, abbiamo ancora un certo grado di indipendenza e di attrattività (invero ci sono state anche delle “new entry”) e dobbiamo mantenerla, così da valorizzare le peculiarità della piazza ticinese».

E cosa possiamo o dobbiamo fare dunque per difendere i nostri interessi e l’economia locale?

«Abbiamo le risorse economiche e finanziarie, dobbiamo investirle, il vero problema è che facciamo fatica a trovare personale qualificato, ma questa è una difficoltà che accomuna tutti i settori e dobbiamo superarla, riuscendo a integrare i giovani, a tenerli qui, a formarli in modo completo, così che possano essere loro, con le loro idee innovative e le loro capacità tecnologiche, a dettare il futuro della piazza finanziaria. Inoltre, ci tengo a dirlo, il cliente che viene in banca per un finanziamento o un investimento vorrà sempre poter interagire con una persona competente e di fiducia, e qui giocano anche i “senior”. Capisco che le operazioni bancarie debbano diventare sempre più veloci, ma per il resto la banca deve continuare a fare da consulente qualificato. I rapporti umani, dunque, resteranno importanti e dovremo continuare a coltivarli, poiché saranno la nostra forza e ci garantiranno la sopravvivenza, anche in un contesto supertecnologico».

Bisogna solo crederci…

«Esatto, dobbiamo crederci, esattamente come un attaccante in una partita di calcio deve credere fino alla fine che il suo compagno gli passi la palla dove deve, affinché lui riesca a segnare, i dubbi in questo caso non sono ammessi perché portano solo all’insuccesso. Il Ticino sta facendo molto per i suoi abitanti, pensiamo alle scuole e al settore sanitario.  È importante che venga fatto qualcosa anche per le banche, se non altro in termini di considerazione. Bisogna tornare a credere che le banche abbiano delle prospettive, che possano offrire posti di lavoro validi, con possibilità di crescita. Dobbiamo e possiamo attrarre nuove persone, anche se il non avere libero accesso ai mercati esteri è un grossissimo problema, senza illuderci perché nell’immediato ci siamo difesi abbastanza bene. Il punto è che non si può avere tutto subito, i giovani devono essere disposti a fare un po’ di gavetta, un qualche sacrificio, per diventare migliori di noi e per farlo bisogna prepararli. Per questa ragione le banche, esattamente come il resto delle società e la politica, devono investire nella formazione. La stessa cosa vale naturalmente anche per i “diversamente giovani”, fino al termine della loro carriera! Come Banca abbiamo creato gruppi di formazione e sviluppo a vari livelli nel cui ambito offriamo una formazione continua, anche di stampo manageriale, un progetto che mi sta molto a cuore, anche perché, come amo ripetere, il mondo andrebbe avanti anche senza di noi, anche se non ci piace o non siamo d’accordo!».

Nuove sfide che soprattutto i nostri giovani potranno affrontare e dovranno farlo, quindi diventa indispensabile dar loro fiducia, prepararli ad essere migliori dei loro predecessori, perché evolvere significa anche non commettere gli sbagli passati.