Si respira aria di primavera, quando arriva in Banca Credinvest con un po’ di anticipo, per l’intervista con il CEO Alex Oberholzer. Entrando vengo subito accolta da un sorriso caloroso e accompagnata da lui. Mentre bevo il caffè noto una certa affinità tra colleghi… 

Mi scusi, ma lavorano tutti in banca? Perché si respira area di creatività…

«Bene (lo dice sorridendo), per me questo è un grande complimento, anche perché bisogna avere sempre nuove idee per stare al passo con i tempi».

Effettivamente questo non è periodo facile per gli istituti bancari, non vorrei essere troppo dura, ma voi siete una banca relativamente piccola e abbiamo visto che neanche la seconda banca svizzera ce l’ha fatta…

«Non si preoccupi, sono spesso sollecitato sull’argomento. Come ha accennato lei, la seconda banca più grande in Svizzera è sparita, ma come spesso capita nella vita i grandi cambiamenti portano grandi opportunità. Non voglio peccare di presunzione, ma Credinvest è un caso peculiare, che si distingue sia dalle piccole che dalle grandi realtà. Non siamo una semplice banca di private banking, come la maggior parte di quelle presenti in Ticino, ma una boutique bank estremamente flessibile, che consente alla clientela di usufruire di servizi di alta gamma, solitamente riservati ad una nicchia di clienti in altri istituti, e che permette di gestire clienti anche presso banche terze. Le due anime della banca, private banking e divisione istituzionale, possono contare su un accesso diretto al trading desk e a varie piattaforme, per erogare servizi a imprenditori, gestori esterni, fiduciarie, family office e banche. Noi siamo certamente una banca piccola, ma ci siamo sempre spinti dove i grandi non arrivavano, la nostra ricetta per la sopravvivenza e la crescita è legata soprattutto al personale». 

Pensavo mi parlasse di una strategia fatta di cifre e previsioni…

«Immagino, ma no, noi prima di tutto cerchiamo di creare un ambiente sano e positivo all’interno dell’azienda. Attualmente siamo in sessanta, ma prevedo che tra due anni arriveremo a ottanta impiegati. Comunque, possiamo anche fare un discorso legato alla produttività per non sembrare ipocriti: se il personale è felice, rende di più, si ammala meno e di conseguenza tutto il flusso societario ne beneficia. Sembreranno parole banali, ma recentemente ho letto su LinkedIn che sei collaboratori su dieci non sono soddisfatti del proprio lavoro. E sa cosa le dico? Nel mondo della finanza sono di più, perché li conosco, ci parlo, in moltissimi si lamentano dell’ambiente in cui si trovano, dei loro capi… questa situazione per una banca come noi, genuinamente attenta al valore dell’uomo, è una grande occasione».

E in che posizione si mette nei confronti dell’Intelligenza Artificiale? Visto che la tendenza è quella di automatizzare i processi lavorativi?

«Puntare sulla forza umana non significa non essere a favore dell’automatizzazione dei processi, anche perché in Credinvest siamo molto attenti alle nuove tecnologie e, lo dichiaro con tutta onestà, non potremmo permetterci altrimenti, ma allo stesso tempo lo dico – anche se rischio di essere ripetitivo – non possiamo dimenticare l’uomo in un settore come il nostro, di servizio e di relazione umana, e quindi noi abbiamo deciso di metterlo al centro. Dovrebbero farlo tutti…».

Effettivamente se leggiamo le statistiche sempre più persone si sentono stressate, i burnout continuano ad aumentare, così come le giornate di malattia, senza dimenticare l’abuso di ansiolitici…

«Da anni si parla di salute psicofisica, ma effettivamente non si fa ancora abbastanza o meglio noi non facciamo abbastanza per noi stessi. Penso che però questo malcontento, che spesso si trasforma in assenze sul lavoro, sia da attribuire allo stile di vita che conduciamo nel suo complesso. Le porto me stesso come esempio: sono padre di due gemelle di nove anni, e tendenzialmente vorrei dare il massimo in tutti gli ambiti, ma questo non è possibile; le cose sono cambiate rispetto a quarant’anni fa, quando i ritmi erano completamente diversi. Oggi, infatti con il telefonino a portata di mano, siamo sempre raggiungibili e la cosa peggiore è che ci sentiamo spesso in obbligo di rispondere; questa pressione crea inevitabilmente delle tensioni che a lungo termine condizionano la nostra essenza. Sta a noi trovare meccanismi per diminuire lo stress. Noi come banca mettiamo a disposizione un coach, il quale lavora sia con la direzione generale sia con il personale a livello individuale e di gruppo. Abbiamo iniziato a fare lezioni di pilates e con l’arrivo della bella stagione vorremmo introdurre dei gruppi di corsa. Inoltre, lo dico da anni, vorrei tanto poter introdurre la figura dello psicologo in banca, creando una formula vincente. So che non tutti si sentiranno a loro agio ad andarci… ma io sinceramente coglierei l’opportunità. Anche perché non nascondiamoci, ognuno di noi ha dei problemi. Per questo dico sempre che non dobbiamo mai essere gelosi degli altri. Gelosi di che cosa? Di quello che non si vede e viene tenuto nascosto? Occorrerebbe dare spazio al dialogo, e parlare con qualcuno non solo quando si hanno delle problematiche, nei periodi down, ma anche nei momenti di estrema felicità. Lo stato migliore è quello in cui siamo in equilibrio, e spesso è difficile arrivare a questa condizione senza un supporto». 

Sentendola parlare trovo delle somiglianze con le culture nordiche, poco presenti a sud delle Alpi…

«Non penso, trovo che sia soprattutto una questione di nuova generazione, anche perché ho quarantadue anni e normalmente i CEO delle banche hanno un’età compresa tra i cinquanta e i sessant’anni; quindi, arrivano da un altro tipo di scuola e approccio». 

Comunque lei è nato a Zurigo, ha studiato in Canada, ha lavorato a Londra…

«Diciamo che gli spostamenti non mi sono mancati (ride). Come ha detto sono nato a Zurigo, nel 1981. Mio papà è zurighese e mia mamma di Praga, nel 1990 ci siamo trasferiti a Lugano, qui ho studiato fino al liceo e poi sono partito per il Canada. Il mio sogno era quello di andare a Vancouver, ma alla fine sono finito nella parte est, in un piccolo paese di settemila abitanti di cui la metà erano studenti, e questa credo sia stata la mia più grande fortuna. La struttura su misura dell’università mi ha permesso di ritrovarmi in piccoli gruppi di studio, a stretto contatto con i professori, una realtà unica e indimenticabile» (ricorda entusiasta). 

Quindi alla fine il consiglio di suo padre, di scegliere un’università a misura d’uomo è stata vincente?

«Certamente, in ogni caso la cosa importante era provare l’indipendenza, esplorare nuovi orizzonti, essere autonomi dalla propria famiglia, anche se so quanto possa fare male ad un genitore – oggi – penso alle mie figlie e alle loro scelte ormai non così distanti. Naturalmente l’uscire di casa da parte di un figlio per una madre e un padre può essere vissuto come una perdita, ma di fatto è l’unico modo per crescere in maniera indipendente.  Ho diversi amici che hanno studiato a Zurigo, ma ogni fine settimana tornavano a casa a farsi lavare i panni» (sorride ironico). 

Ma lei ci ha messo un po’ a tornare in Ticino o sbaglio?

«Devo essere sincero, ho sempre voluto rientrare a Lugano, ma non pensavo di fermarmi… eppure per un anno e mezzo ho lavorato in Ticino, poi però sono partito per Londra, ho lavorato come cambista di metalli preziosi, un settore che malgrado la crisi finanziaria mondiale, andava a gonfie vele. Vivevo in una sorta di isola felice in un periodo storico estremamente buio specialmente per gli operatori finanziari e per migliaia di persone rimaste da un giorno all’altro senza lavoro». 

Allora come mai è tornato in Svizzera?

«Per amore, mia moglie. Prima di partire per Londra ci eravamo conosciuti e le avevo promesso che non sarei stato lontano più di due anni, alla fine dopo due anni e mezzo sono rientrato da lei, anche perché quando ero in Inghilterra dovevamo spostarci a turno per incontrarci, e non era sempre semplice, poiché lavoravo tantissimo.  Si figuri che a quei tempi bisognava firmare una dichiarazione nella quale c’era scritto che praticamente non c’erano orari: una follia per molti, ma personalmente, in quel momento, non volevo altro e sinceramente i due anni e mezzo a Londra mi hanno fatto crescere a livello esponenziale». 

Questo significa che per arrivare un qualche sacrificio bisogna farlo… insomma nessuno ti regala nulla…

«Sono convinto che occorra fare qualcosa di più rispetto agli altri se si vuole ricoprire una posizione di rilievo, questo è normale e, guardando alla meritocrazia, anche corretto. Lo dico sempre ai miei collaboratori: è solo attraverso la pratica che si guadagna esperienza; quindi, più lavori più cresci a livello professionale. Anche un genio della finanza inizialmente dovrà sgobbare… solo dopo, quando ha un ruolo e ha consolidato il suo sapere professionale, potrà ritagliarsi più tempo libero». 

Tornare per qualcuno che si ama delle volte significa anche lasciare un posto di lavoro in cui ci si trovava bene…

(Ride) «No no, a Londra l’ambiente aziendale non era facile, da coltelli tra i denti, parliamo di ottantamila persone pronte a farti uno sgambetto pur di essere migliori di te… A Zurigo mi sono ritrovato a casa, un ambiente lavorativo più piccolo, ma non per questo meno stimolante. Quindi, con grande fortuna, a ventotto anni ho realizzato che non avrei mai più lavorato per un’azienda grossa, non mi interessava lo stipendio fisso al venticinque del mese, volevo qualcosa di più, ero disposto a rischiare. Volevo essere io a tenere in mano le redini del mio destino lavorativo e non dipendere da decisioni altrui. Per questo ho optato per realtà ridimensionate, ma non per questo meno concorrenziali». 

Come ha fatto, come è arrivato qui? Perché qualcosa deve essere successo o meglio, qualcosa di speciale deve aver fatto.

«Ai tempi ero un po’ naif… dopo due anni a Zurigo avevo maturato l’idea di fare una banca mia, cosa impossibile in Svizzera senza grandi capitali; quindi, ho iniziato a cercare un cliente che fosse disposto ad appoggiare il mio progetto. Un progetto di fatto molto semplice, ma che nessuno aveva ancora implementato concretamente: dare accesso alla sala mercati con accesso simultaneo a piattaforme digitali in white label quali, ad esempio Saxo ed Interactive Brokers. Il tutto consolidato in un unico sistema, aggiornato ogni dieci minuti. Abbiamo messo in piedi un ecosistema di servizi di cartolarizzazione multiprodotto e multi-giurisdizione. In particolare, abbiamo creato un Team esperto in materia di Actively Managed Certificates, uno strumento che offre a tutti i gestori esterni la possibilità di cartolarizzare le proprie strategie d’investimento. Correva l’anno 2014 quando Credinvest ha creduto in me ed insieme abbiamo iniziato questo percorso, che ancora oggi va avanti. Ho avuto anche quel pizzico di fortuna, che non guasta mai; infatti, durante il mio percorso, ho conosciuto il proprietario di una banca, che era alla ricerca di soluzioni nel mondo legato ai cambi valutari (uno dei nostri punti di forza), e i ricavi generati nei primi dieci mesi hanno permesso alla mia divisione neo-creata di finire in utile sin dal primo anno. Questo successo ci ha permesso di apportare nuovi clienti e nel giro di tre anni gli AuM della banca sono più che raddoppiati». 

Prima mi ha parlato di una crescita continua, anche futura; quindi, significa che una banca come la vostra ha ancora un grande potenziale futuro in Ticino?

«Certamente, penso che sia per la vita lavorativa sia per quella privata, se si vuole avere successo, bisogna cambiare i propri punti di riferimento. Questo include anche le amicizie, le persone che ci circondano… tutto. A Lugano l’opinione comune, già dieci anni fa, mi evidenziava che non sarei mai riuscito ad avere una banca come quella odierna, che sicuramente avrei chiuso nel giro di pochi mesi. Invece stiamo crescendo (soddisfatto). Il mondo è pieno di gente che dice che non ce la puoi fare».

Pensa sia la mentalità legata al sud Europa?

«Non voglio fare distinzione tra sud e nord, credo che non sia una questione geografica, ma legata alla natura intrinseca dell’essere umano. In generale, tendiamo sempre a esternalizzare le colpe, nessuno vuole assumersi le proprie responsabilità… una volta le mancanze sono attribuibili alla società, l’altra l’errore è imputabile al collega di lavoro… io ho imparato prestissimo a prendermi la colpa praticamente su tutto e questo per me è un vantaggio a livello psicologico perché dal momento in cui ti responsabilizzi hai in mano le redini del tuo destino.  Tornando a noi penso che il mondo stia cambiando, ma avrà sempre bisogno di istituti bancari. Quante banche? Non lo so di preciso, ma sicuramente vi sarà la necessità anche qui a Lugano».

In questa intervista ha parlato spesso di fortuna, ma la fortuna esiste veramente o è frutto di grande dedizione e sacrificio?

«Ognuno di noi si crea la propria fortuna. Ma a parlare troppo di sé stessi si rischia di cadere nell’arroganza. In ogni caso prima di parlare di fortuna dobbiamo parlare di abilità; oggi l’abilità sta nell’identificare le opportunità e avere il coraggio di reagire in modo rapido. La fortuna è quella che possiamo trovare anche dietro alle incognite; quando sono arrivato qui, per esempio, ho trovato del personale già altamente qualificato e dei sistemi informatici all’avanguardia che mi hanno permesso di implementare da subito il mio progetto. Questa è stata la mia parte di fortuna». 

Lei ha due figlie, il mondo sta cambiando molto velocemente, abbiamo parlato in precedenza di Intelligenza Artificiale, che preoccupazioni ha legate a oggi?

«Ciò che noto è che l’istruzione di oggi – e non dico di avere la soluzione – è un problema grande, anche perché il sistema scolastico è cambiato poco rispetto a trent’anni fa. Stiamo ancora premiando la mera diligenza (che non è da sottovalutare, per carità), ma oggi tutto quello che studiamo lo possiamo ottenere tramite i dispositivi mobili; quindi, dovremmo in ogni caso trovare altri modi per formarci, evolverci, adattarci al domani. Questo sì mi fa paura, anche perché nessuno di noi può prevedere la velocità con la quale l’IA assorbirà il mondo intero. Questo è il motivo per cui i giovani dovrebbero interiorizzare un metodo di lavoro, non tanto imparare argomenti a memoria».

Quindi potrebbe immaginare un mondo dove la robotica sostituisca l’uomo…

«Io provoco sempre dicendo che forse tra cinquant’anni nessuno lavorerà più, o forse lavoreranno in pochi e vi sarà uno stipendio garantito… anche perché diciamo che alcune professioni non saranno sostituite, quando in realtà se il percorso domotico continua a questi ritmi sostituiremo anche i lavori prettamente manuali. Questo per dire che non saranno solo le banche a essere minacciate. Se poi mi si chiede cosa faremo? Non lo so. Volendo guardare ai lati positivi, potremo dedicare più tempo a noi stessi, alle nostre passioni, alla nostra famiglia, ma dall’altra parte sono convinto che il lavoro ricopra un ruolo chiave nella vita dell’uomo. Il lavoro ti forma, ti dà disciplina, opportunità e stimoli. L’ozio sfrenato non so se, alla prova dei fatti, piacerebbe a molti. Lo vedo su me stesso, quando sono in vacanza per troppi giorni mi manca il lavoro, la mia vita, la mia routine».

Come vede il futuro per i giovani a Lugano?

«Quando parla di giovani, penso alle mie figlie. Io non ho ambizioni per loro, credo che ognuno abbia la propria vita, che debba lottare per i propri ideali, i propri sogni. Lugano è una città disegnata anche per i giovani. Certamente per poter soddisfare le esigenze della gioventù di oggi e di domani dovrà cambiare, altrimenti rischia di rimanere provinciale e troppo legata al passato. Il problema qui è che nascono poche idee a livello lavorativo. Se ci si reca a Venice Beach, in California, si possono incontrare diversi giovani, senza abiti formali, che parlano solo di idee, progetti, non ostentano soldi. Quindi agli adulti di domani dico: cari giovani, non smettete di pianificare e di trasformare le vostre idee in progetti. Vivete e non lasciatevi condizionare dai “non ce la farai mai. In generale, sono convinto che dappertutto si può fare la differenza, bisogna crederci, lavorare sodo e sacrificare la persona che si è oggi per quella che si vuole diventare domani».

Esco, guardo il lago di Lugano e ancora una volta mi dico che ognuno di noi deve seguire la propria strada, senza farsi condizionare, circondandosi di persone simili, con gli stessi valori, e quindi rispettosi dei progetti altrui.