Con “Il giardino delle agavi “, Salvatore Maria Fares torna al romanzo. Come definirebbe questa sua nuova opera letteraria?

«È una storia che racconta i sentimenti dei protagonisti e non solo le vicende che caratterizzano le situazioni in cui si trovano. In tanta narrativa le situazioni vengono raccontate dagli autori con il distacco del cronista e il lettore trae le impressioni sulla scorta della propria esperienza. In questo romanzo i protagonisti offrono già la loro condizione spirituale, quindi morale e non solo sentimentale. Non sono ancora trentenni fra gli anni Ottanta e Novanta, quando i giovani nel decennio precedente avevano già conquistato indipendenza e fatto crescere un certo protagonismo per affermarsi. Le donne diventarono più libere, non solo di mostrare i loro corpi e vestirsi liberamente, con le mode in voga. Hanno acquisito un protagonismo che non le fa più, sottomesse alla morale o ai condizionamenti tradizionali del passato. Qualcuno disse che la donna è un vaso fragile al quale attingere ma non solo per prendere. Definirei realistica la mia narrazione ma non maschilista come a qualcuno potrebbe apparire».

Attraverso tre ritratti femminili che costituiscono il cuore del racconto, lei introduce una sorta di autobiografia. Come è nata l’idea di questo libro e come si inserisce nel suo personale percorso di vita?

«Non è propriamente un racconto autobiografico, sebbene molti spunti siano presi da esperienze reali. Le tre protagoniste sono ispirate da donne che ho conosciuto ma le situazioni in cui le racconto sono romanzesche, quindi in parte fantasiose. Di autobiografico ci sono i sentimenti che in qualche mia storia ho provato, dalla gelosia al distacco e all’inevitabile egoismo che caratterizza tutti e non solo Jacopo Lanzer, il narratore protagonista. Un suo amico psicologo aggiunge quanto manca al suo racconto e lo può fare poiché conosce anche le tre ragazze che si confidavano con lui per capire meglio il loro compagno e non perché subivano qualcosa di ingiusto. Sono anche loro infatti le cause dei comportamenti di quell’uomo che non nutre nei loro confronti desideri di possesso o di compiacente appropriazione delle loro dedizioni a lui, spesso però anche distratte. A qualcuno il romanzo appare un po’ maschilista ma proprio non lo è. Lo aveva letto in anteprima una delle scrittrici più famose e mi scrisse: “Ho letto il tuo romanzo. Ho inseguito con le tue parole gli amori, le fughe, i tradimenti, gli incantesimi dell’eros, la stanchezza, la nostalgia, il ritorno, la magia dei ricordi. E’ un romanzo che si interroga sui misteri dell’amore, sui segreti del cuore femminile, come dici durante il racconto esplicitamente. Per quanto mi riguarda non credo che il cuore delle donne sia diverso da quello degli uomini, a parte la Storia che ha reso più indifeso e spaventato quello che sta in petto alle donne e ha reso più sicuro e possessivo quello dell’uomo. Non si tratta di differenze biologiche ma storiche. Comunque sei in buona compagnia perché anche Freud la pensava come te. Mi sembra comunque che il romanzo scorra e si legga bene, mi sembra che sia comunicativo nel senso giusto».

Protagonista non secondaria del romanzo è la città di Lugano. Quali rapporti la legano ai luoghi cittadini che fungono da scenario allo svolgimento delle vicende narrate?

«Lugano è una città molto amabile. Posso ricordare l’inizio del romanzo, un omaggio alla nostra città: “La mia casa in collina si affaccia sul lago. Davanti ha un grande giardino a gradoni decorato di piante di fiori e di splendide agavi. Sono maestose ma hanno le spine, e si lasciano solo guardare. Dal mio balcone si vedono sfilare le vele e i motoscafi; lasciano strisce bianche di spuma. Potresti illuderti di prendere fra il pollice e l’indice gli aeroplani che passano e atterrano poco lontano, tanto ti sembrano piccoli e vicini. Davanti al mio balcone le stagioni cambiano gli scenari con un’intensità di colori che non trovi da nessun’altra parte. Lugano vista dall’alto appare come una città mediterranea. Solo le montagne ti ricordano che i nostri gabbiani non sono quelli del mare. Li vedi volare rapidi da un battello all’altro, schivano le picchiate delle poiane predatrici e si accostano ai cigni…Lugano è bellissima sotto la neve. Soprattutto la sera, con il golfo circondato di luci, per lo più dorate, che scivolano dal bianco delle colline per andare a riflettersi nel lago, formando una doppia corona di lanterne che splende quasi ininterrotta…Sotto quel candore riposa una città opulenta, elegante, e anche innocente nella sua appariscenza. Ingioiellata di banche e di grandi istituti fiduciari, è percorsa da traffici silenziosi sviluppati da gente operosa che grazie anche agli innumerevoli capitali portati dagli stranieri l’ha resa molto attraente. Ci vivono ragazze altrettanto piacevoli, figlie della gente mediterranea che si incontra con quella del Nord”».

Lei è un attento osservatore della vita culturale di Lugano e del Ticino. Come ha visto cambiare nel tempo la città e il Cantone?

«Lugano culturalmente venti anni or sono interessava maggiormente il pubblico europeo, senza grandi invasioni comunque. Erano attrattive soprattutto le grandi mostre e ricordo quando per andare alla Villa Thyssen le code arrivavano fino al Cassarate. Ricordo anche che a casa loro la baronessa, a tavola con il presidente Cossiga e il principe Romanov, disse che a Lugano le signore non l’avevano mai invitata a bere un tè. Preferì quindi il tè settimanale della regina a Madrid e la collezione ci lasciò. Le grandi mostre della Città attraevano molto e ne abbiamo avute di memorabili. I concerti sono di qualità elevata con prestigiose orchestre e solisti, ma non dobbiamo pensare che questo debba per forza portare flussi turistici. La città, che nel mio libro è il giardino delle agavi, è cambiata molto; l’edilizia l’ha trasformata ma non solo nelle periferie, che comunque sono in sintonia con le città crescenti ovunque. Sono cambiati i “contenitori” periferici ma anche il centro, dove comunque spiccano ancora dei gioielli architettonici, anche nuovi. Cambia il mondo, anche da noi. La popolazione del Ticino attuale era immaginabile negli anni Settanta con i forti flussi dall’Italia che hanno portato mano d’opera stabile ma anche qualità nella generazione successiva. Infatti moltissimi figli di immigrati sono oggi professionisti di valore e anche politici ad alto livello».

Il bisogno di scrivere è una malattia da cui è difficile guarire. Ci può anticipare quali nuovi progetti ha nel cassetto e che vorrebbe realizzare?

«Il bisogno di scrivere è una passione e un istinto. Dopo il successo di Mia bella signora avrei potuto scrivere di più per la narrativa ma ho scritto poesie e migliaia di articoli. Il lavoro alla radio era già una forma espressiva e con migliaia di programmi e incontri mi assorbiva e questo era il mio compito. Raccoglierò presto i miei articoli dedicati all’arte e quelli di cultura e costume apparsi soprattutto sul Corriere del Ticino, per il quale scrivo da quasi quaranta anni. Il sogno nel cassetto l’ho tirato fuori diverse volte ma invano: si potrebbe dare a Lugano e al Cantone un’ulteriore connotazione di internazionalità e penso al mio progetto di un premio letterario europeo per la narrativa, che porterebbe a Lugano scrittori di rilievo affidati al giudizio di trecento nostri lettori. A Lugano e in Ticino hanno vissuto o soggiornato a lungo grandi firme letterarie come Rilke e Remarque e musicisti come Bruno Walter e Benedetti Michelangeli. Due Nobel, Hermann Hesse, che abitava qui, e Thomas Mann giocarono insieme alle bocce a Gentilino. Mio figlio da bambino strimpellava il pianoforte che proveniva dalla casa di De Chirico, in collina. Non è mai troppo tardi e quindi “chi ha orecchio intenda”. Continuerò con relatori di valore gli annuali Convegni luganesi del Circolo culturale Nuova Antologia che è stata la prima rivista europea, creata da uno svizzero a Firenze».