Aldo Sofia, lei ha una lunga carriera nel mondo della carta stampata prima e poi dei media. Quali sono state le tappe più importanti di questo percorso professionale?
«Fondamentali e formativi per la mia attività sono stati i primi anni di esperienza al Giornale del Popolo. Del resto, il giornalismo scritto mi è sempre rimasto caro, e ho costantemente cercato e avuto la possibilità negli anni successivi di collaborare a diverse testate, sia ticinesi che italiane. Quel battesimo professionale, nel giornale che allora, parlo di oltre mezzo fa, era il più diffuso del Ticino, e molto presente nelle valli e nelle aree più periferiche, si è rivelato prezioso per il resto del mio percorso giornalistico. Per conoscere le regole fondamentali del mestiere, per il contatto diretto con i lettori, per l’incontro con autentici “maestri”, in particolare Silvano Toppi e Giampiero Pedrazzi, che mi riportò al giornale dopo una parentesi di studi in Gran Bretagna. Venni poi assunto come collaboratore esterno dalla Radio della RTSI, diventando responsabile degli “esteri”: altro periodo di formazione intensa, che mi ha aiutato anche nel ruolo di presentatore. Passato in TV agli inizi degli anni Ottanta, incoraggiato da un collega per me fondamentale come Willy Baggi, mi è stato chiesto anche di inventare nuovi formati di approfondimento, da TTT a Fax e infine Falò, tuttora programmato, trent’anni dopo, dalla RSI. Ex responsabile del Telegiornale, e inviato all’estero: grande impegno ma anche una possibilità di lavoro eccezionale, per la conoscenza di situazioni che mi hanno profondamente segnato, durante il quale ho incontrato un’umanità indimenticabile. In TV ci sono rimasto quattro decenni, prima di un pensionamento attivo, durante il quale ho diretto la scuola cantonale di giornalismo (un incontro fecondissimo coi giovani) e co-fondato il portale di commenti “Naufraghi.ch”, un nuovo stimolante impegno. Ho dunque attraversato il giornalismo dall’epoca “del piombo” (materia prima del giornale scritto in tipografia) all’attuale rete del web e dei social, partecipando alle varie trasformazioni tecniche e informative del giornalismo. Un “capitale” che spero di aver assimilato per una platea sempre più esigente: quella dei lettori e dei fruitori del nostro mondo dei mass-media».
Negli anni ha ricoperto vari incarichi all’interno della RSI. Quali sono stati le principali trasformazioni di questa azienda che lei ha accompagnato o spesso anticipato?
«I cambiamenti in RSI, come in tutte le radio-tv del mondo, siano di servizio pubblico o private, sono stati formidabili. Ci hanno costretto (e a volte abbiamo reagito con un po’ di ritardo) a scalare cambiamenti radicali e inizialmente spesso disorientanti. La tecnologia ha cambiato noi ma anche la nostra platea, è mutato il rapporto col pubblico, più attivo nel manifestare le proprie opinioni attraverso le nuove possibilità tecnologiche. Spesso in positivo, anche se occorre ammettere che non di rado assistiamo a interventi sui social che sono francamente più caratterizzati da uno spirito polemico, e anche insultante assolutamente inaccettabile. Essere giornalista è diventato decisamente più complicato, è cominciata la crisi dei giornali per motivi economici (sempre meno pubblicità e abbonati), lo sforzo cade spesso sulle spalle di piccole redazioni, la massa di notizie in arrivo minuto dopo minuto è impressionante, la necessità di reagire tempestivamente eccessiva. Vale anche per la nostra radio-tv, che produce molto e in generale produce buoni programmi, si distingue da altre emittenti con un’offerta di approfondimenti veri che non trovereste ad altre latitudini, in una SSR che, per il rispetto della solidarietà e della coesione nazionale, deve produrre in realtà tre programmi televisivi e tre radiofonici diversi, come diverse sono gli impianti cultuali e linguistici della Confederazione. Si riflette abbastanza su questa peculiarità? Non credo, spesso viene vista come situazione scontata e viene sottovalutata».
Giornalismo d’inchiesta: che significato ha oggi questo concetto in un’epoca dominata dai nuovi media, da internet, dalla digitalizzazione e presto anche dall’AI?
«Proprio l’irruzione dei nuovi media dovrebbe far riflettere sull’importanza e la necessità del lavoro d’inchiesta, degli approfondimenti, che, in un’informazione caratterizzata da un continuo flusso di notizie poco spiegate e contestualizzate, rivestono un’importanze particolare, che probabilmente potrà contribuire a salvare in futuro anche la carta stampata. Il racconto e l’interpretazione dei fatti, da realizzarsi con correttezza e qualità, rappresentano e rimangono un aspetto decisivo per il nostro confronto democratico, per sapere in che paese viviamo, per capire come cambia per volontà e necessità. Riguarda le situazioni nazionali, ma non solo: ormai “il mondo ci è entrato in casa”, portandoci vantaggi ma anche problematicità che si possono affrontare solo con l’aggiornamento e la conoscenza da parte del pubblico. Naturalmente non vale solo per la RSI, ma per tutte le esperienze giornalistiche: ma è un fatto che approfondimenti e inchieste richiedono più tempo e più investimenti, che il servizio pubblico ha i mezzi per concretizzarli. In tal senso penso proprio che, facendo il paragone con altre radio-tv che possiamo seguire, la RSI, ma non solo, sia stata esemplarmente attenta e puntuale. Certo, gli errori ci possono essere ed è normale, anzi giusto che vengano rilevati, ma non possono nascondere la realtà di un’offerta molto ricca e qualitativamente di buona qualità. In certi settori, la RSI è stata anticipatrice anche nei programmi d’inchiesta. L’intelligenza artificiale può diventare un problema? Certo, soprattutto se il potere politico non si sforzerà concretamente (e non come è avvenuto per il web) di fissare regole a tutela delle persone e della società, anche quella economico-produttiva e del mondo del lavoro. Ma può essere, come già vediamo, anche un formidabile strumento positivo di crescita. È la solita storia del coltello: indispensabile, ma dipende sempre dall’uso che si intende farne. Ecco perché la formazione, come in tutte le professioni, anzi la formazione continua, è una necessità imprescindibile anche nel nostro lavoro, che non può permettersi di essere sommario, poco aggiornato, poco professionale e quindi meno credibile».
Lei è stato inviato di guerra in aree particolarmente “calde” come il Vicino Oriente: che cosa prova di fronte alle drammatiche situazioni che vivono oggi quei territori?
«Devo confessare che anche per un giornalista che ha sovente lavorato in quella zona del mondo oggi in fiamme a causa di un conflitto particolarmente cruento, i tragici fatti in corso e la loro modalità possono suscitare sorpresa, orrore e smarrimento. Laggiù ho conoscenti e contatti in entrambi i campi in conflitto. Ascolto da laggiù vecchie conoscenze che mi raccontano una situazione che non si era mai registrata nell’ultimo mezzo secolo di crisi anche guerreggiate. Naturalmente, conoscere la storia della regione, averla raccontata per alcuni decenni, aiuta a capire le radici del problema, elaborare il presente, fornire dei giudizi. Conoscere la Storia – ed è un approccio che fortunatamente nei nostri Corsi cantonali di giornalismo – è dunque indispensabile per raccontare, far capire, e spiegare. È stato un difetto della politica internazionale l’aver “dimenticato” la crisi medio-orientale e la sua esplosività. E in parte anche di un giornalismo sempre più preso da fatti spiccioli, spesso senza vera sostanza, dimenticando quanto siano numerose, gravi, ingiuste le piaghe del mondo».
Corrispondente prima a Parigi e Bruxelles, poi a Roma. Che cosa ricorda con piacere di quelle esperienze?
«Poter fare l’inviato e il corrispondente, è sempre stata la mia principale ambizione, anche se poi mi sono occupato molto anche delle situazioni del nostro paese. Un mio superiore mi convinse a diversificare dicendomi “guarda che il tuo Vietnam è qui”. Aver lavorato in zone di guerra e come corrispondente a Parigi, Bruxelles, Roma è stata un’altra pedagogica opportunità. Anche per capire la nostra situazione, e non è affatto un paradosso. Ci dobbiamo riflettere nei problemi altrui, tutti dovremmo averlo compreso, visto che ciò che accade fuori dai nostri confini, in realtà vicine o anche più lontane, è fondamentale perché gli effetti delle onde delle crisi internazionale inevitabilmente ci interesse, che si tratti di effetti economici, sociali, o ambientali. Oggi più nessuno mi direbbe ciò che mi sentivo dire ancora una ventina di anni fa, “ma perché va in giro a raccontare situazioni che possono essere anche pericolose per i giornalisti”. Ormai avvertiamo, sentiamo, percepiamo che la conoscenza di quelle realtà fa parte della nostra quotidianità, e che essa ne è condizionata. E chi altri la dovrebbe comunicare se non un giornalismo attento e soprattutto preparato?».
Quali sono i progetti che attualmente la impegnano maggiormente nel campo della documentaristica televisiva?
«Ancora pochi anni fa ho potuto realizzare o fare da consulente per i documentari giornalistici della RSI. Sono state altrettante scuole di giornalismo. Dirò di più: in quegli ultimi anni ho imparato, imparato molto, grazie alla collaborazione con una nuova generazione di professionisti, più attenti anche a forme narrative che devono evolvere col tempo ed essere più coinvolgenti: devo parecchio ai giovani realizzatori. Ora collaboro con alcuni giornali, e soprattutto per la realizzazione quotidiana (sette giorni su sette, 365 giorni all’anno) della piattaforma di commenti Naufraghi.ch, che registra un interesse e numeri che non avevamo lontanamente immaginato al momento del debutto. Lo dico soprattutto per evidenziare come in definitiva il bisogno di un buon giornalismo (che speriamo di offrire) non è merce trascurabile, interessa ancora, ha spazio e opportunità».