Tradizione viene dal latino tradere, che significa consegnare. La tradizione non deve vivere nel passato, ma nel presente. Dipende da noi mantenerla viva, anche adattandola a esigenze che nel tempo sono cambiate. Perché l’innovazione può avvenire solo su quanto tramandato. Il concetto di innovazione spesso si confonde con l’invenzione, ma le due idee sono piuttosto diverse.
Gualtiero Marchesi diceva che l’invenzione è sempre individuale. Nasce da un pensiero, da un’intuizione innestata su qualcosa di preesistente: se un tortello si apre, significa che la tradizione ce lo ha consegnato chiuso. Può anche capitare che l’invenzione si diffonda, perché serve ad aggiustare, migliorare, perfezionare la tradizione. Perché piace. Ed ecco che successivamente alcuni, poi tanti, facciano propria quell’idea, ritenendola utile. A quel punto l’invenzione ha creato innovazione, ha modificato un modo collettivo di fare le cose, di preparare il cibo. Un’invenzione individuale è stata condivisa e si è trasformata in un’innovazione collettiva, che a sua volta diventa una nuova tradizione.
Deve essere successo così, ad esempio, per il pesto alla genovese che inizialmente non aveva i pinoli, troppo cari da inserire in un condimento semplice di erbe che sono sempre state alla base della cucina genovese. Aggiunte che ormai dalla seconda metà dell’Ottocento fanno parte della tradizione. Rivisitare la tradizione dovrebbe implicare sempre un miglioramento, come in questo caso. Nella rivisitazione non può assolutamente mancare il ricordo, sensoriale e di memoria, ma anche olfattivo, del piatto originale. La nuova proposta deve ricordare i sapori che si provavano in passato.
Le innovazioni possono essere tecnologiche, ma anche sociali e culturali, promotrici di nuovi approcci e modi di vivere una quotidianità più consapevole, in tutti i settori. Ogni società legge sé stessa attraverso vari segnali legati alla sua evoluzione storico-ambientale. E anche il mondo della gastronomia fa parte della società, ne è un’espressione.
Innovare significa anche aderire alle circostanze, ai mutamenti dell’ambiente, alle scoperte scientifiche, significa non perdere di vista il mercato, osservare e proporre risposte concrete sempre più coerenti con i bisogni di tutti.
Quando un’innovazione è appena introdotta, il cambiamento socio-culturale si realizza in modo superficiale, non viene immediatamente riconosciuto e subisce la critica di molti; col passare del tempo la trasformazione diventa sempre più profonda e radicata.
Un esempio su tutti sono i prodotti arrivati in Europa dopo la scoperta dell’America. Un cambiamento che ha introdotto nuovi alimenti e nuovi gusti, molti dei quali inizialmente incontrarono molta resistenza: dal mais ai fagioli, dalla patata, accettata solo durante le tremende carestie del XVIII secolo, al pomodoro, impiegato come condimento della pasta solo dalla fine del ‘700, unitamente a numerosi altri ortaggi e frutta, alla base della nostra odierna alimentazione quotidiana. Ma cosa sarebbe oggi la Svizzera senza la patata e la polenta? E l’Italia senza il pomodoro, considerato inizialmente una pianta da decorazione?
Prima ancora della scoperta dell’America, una grande trasformazione a metà del 1400 stava già avvenendo grazie a un cuoco bleniese. Oggi la cucina tende a valorizzare ingredienti semplici, stagionali e locali. Come 600 anni fa già proponeva Martino de’ Rossi, il cuoco originario di Grumo che ha rivoluzionato i gusti della sua epoca ed è stato riconosciuto a livello mondiale il primo cuoco moderno della storia.
Proprio per l’attualità dei suoi piatti, con ricette come frittata di erbe, ravioli, gallina ripiena, polpette di carne, persico fritto, il suo ricettario Libro de arte coquinaria ha segnato l’inizio di un nuovo cucinare, avvicinandosi maggiormente ai nostri gusti.
A fine Medio Evo si utilizzavano tanta carne e tante spezie come simbolo di ricchezza, senza dare troppa importanza al risultato. L’epoca promuoveva una alimentazione commisurata al rango, ma per la prima volta Martino nobilita ingredienti semplici e li propone su tavole importanti.
Dopo una ricca esperienza nella sua terra, ha lavorato presso le più rinomate corti italiane del periodo e per tanti personaggi famosi: alla Corte degli Sforza, per il diplomatico veneziano Ludovico Trevisan, noto per le sue raffinate esigenze gastronomiche e conosciuto con il nome di Cardinal Lucullo, alla corte pontificia per due papi, Paolo II e Sisto IV, per rientrare alla fine della carriera nelle sue terre natie e lavorare per GianGiacomo Trivulzio.
Per la prima volta, il suo ricettario era impostato in capitoli, con una terminologia più appropriata, con dosi e tempi di cottura indicati con maggiore precisione.
Tante verdure, cavoli, rape, finocchi e ogni sorta di erbette sono alla base di molte sue ricette. E ancora molte uova, mandorle, pasta, condimenti semplici come l’olio: nelle cipolle fritte per la torta alla genovese, nelle frittelle di riso, di mele, di erbe, nelle zucche e nei funghi fritti o nella frittata di uova. Oggi queste scelte possono sembrare banali, ma all’epoca erano una vera e propria rivoluzione. I cuochi del suo tempo condivano principalmente con lardo, burro, agresto (salsa di mosto d’uva acerba con aggiunta di spezie e miele), o solo con miele e spezie. Martino propone anche i ravioli non più fritti nello strutto, ma cotti in brodo di cappone ripieni di cacio, polpa di cappone e spezie o in versione di magro con cacio, menta e bieta.
Durante l’estate si è potuto scoprire questo ed altro e l’importanza del suo ruolo nello sviluppo della storia della cucina, in una mostra organizzata da Blenio Bellissima al museo dei Landfogti di Lottigna che ha celebrato il Principe dei cuochi, a dimostrazione ancora una volta di quanto il nostro territorio sia ricco da sempre di cultura gastronomica e racchiuda il meglio della tradizione e innovazione. Martino quindi innovatore per l’uso di tante erbe aromatiche, e non solo, entrate poi nell’uso quotidiano della cucina moderna e considerate oggi sinonimo di tradizione.
La cucina è luogo di condivisione e di trasformazione: il cibo favorisce il contatto tra culture, ma non ne esce indenne. Esistono alimenti che accompagnano l’uomo da sempre, come il grano, l’olio e il vino, mentre altri sono dimenticati, come il garum romano; alcuni sono messi da parte temporaneamente, come il miele, sostituito dallo zucchero, ma oggi di nuovo considerato perché più salutare; altri vengono trasformati secondo gli usi delle popolazioni locali, come il mais, che è stato usato in farina per farne pappe, zuppe, pane e dolci, alla maniera europea.
Il cibo è elemento di identità sociale e culturale, strumento di integrazione, caratterizzato da scelte e preferenze mutate nei secoli. Gusto è sapore, una sensazione individuale, ma è anche sapere, condizionato dalle situazioni culturali, economiche e sociali. Alla base delle tradizioni ci sono sempre contaminazioni gastronomiche risultanti dall’incontro di culture differenti, dallo scambio continuo tra i popoli e la loro identità. In attesa di nuove invenzioni e innovazioni.