Facile immaginare, anche in questo film, la presenza di cattivi e di buoni, questi ultimi almeno destinati a sicura vittoria almeno sul grande schermo.

Scontato anche che la trama sia stata aggiornata alla odierna sensibilità sociale sociali, a cominciare dalla parità di genere, dato che, osservò Roger Moore con tipico understatement britannico, per tutto il resto il copione di ogni film di James Bond racconta sempre la stessa storia.

Facciamocene una ragione: il finale di No time to die prevede che il sequel avrà un protagonista totalmente nuovo, ed in futuro ci risparmierà alcune delle incongruenze che per quieto sognare abbiamo accettato.

Come sinora è accaduto quando all’originario Sean Connery la trama ha previsto di dare fiducia, a George Lazenby, poi a Roger Moore, proseguendo con Timothy Dalton, ed ancora con Pierce Brosnan, per arrivare a Daniel Craig: fisicamente diversissimi l’uno dall’altro ma che la finzione artistica ha proposto al pubblico come fossero la medesima persona.

Allora, perché questa produzione 2021 suscita tanto interesse?

Vari i motivi.

Innanzitutto, perché nel corso degli anni, esauriti gli spunti narrativi originariamente immaginati dal britannico Ian Fleming, vero agente segreto poi convertitosi in scrittore ed autore del personaggio cinematografico, ad ogni uscita nelle sale le pellicole di James Bond innanzitutto colgono, riassumono lo spirito di un determinato periodo sociale.

Lo confermano le parole della produttrice e figlia di uno dei fondatori della saga insieme a Harry Salzmann: in questo caso stiamo parlando del leggendario Albert Broccoli.

Recentemente intervistata dalla BBC, il servizio pubblico radiotelevisivo britannico, in occasione della Royal Premiere, la anteprima riservata alle celebrità internazionali precedute da Carlo e William d’Inghilterra, rispettive consorti incluse, Barbara Broccoli ha spiegato il processo creativo che anticipa la stesura di un nuovo copione.

“Il nostro gruppo di lavoro si riunisce per individuare i problemi sociali del momento; poi iniziamo ad immaginare come James Bond li può risolvere”.

Nel caso di No time to die, gli sceneggiatori avevano previsto che uno scienziato malvagio annientasse la umanità tramite un morbo letale diffuso per semplice contagio.

Alla prova dei fatti, in particolare delle cronache degli ultimi venti mesi, questa ipotesi pare abbia anticipato la realtà oltre ogni possibile previsione; tanto che, si dice, alcune scene del film abbiano dovuto essere nuovamente girate per evitare riferimenti troppo espliciti alla pandemia in corso.

Forse che i produttori del film sanno leggere il futuro? Niente affatto: il loro team creativo comprende alcuni tra i più quotati esperti di marketing e, riconosciamolo, era da tempo che nei convegni internazionali si temeva il probabile arrivo di una crisi sanitaria mondiale, anche se nessuno ne immaginava, origine, cause, e soprattutto gli effetti con cui oggi conviviamo.

Senza volerlo, anche le vicende legate alla produzione di No time to die, sembrerebbero ispirate dalla sceneggiatura di Effetto Notte.

È la pellicola che nel 1973 il regista francese Francois Truffault girò sulla difficoltà di portare a termine un film ritardato da una serie di complicazioni, e che diventò un capolavoro, non solo per la trama, ma per il fatto che si riuscì a concluderlo.

In Bond #25 c’è qualche richiamo alla Svizzera? Sì, indirettamente.

Il pluripremiato cinquantasettenne tedesco Hans Zimmer, oggi compositore della colonna sonora di No Time To Die, esordì come tastierista nel gruppo musicale italo-svizzero Chrisma, di Christina Moser e Maurizio Arcieri, e si esibì anche dalle nostre parti prima di partire per gli States.

C’è dell’altro: per Bond #25, a complicare la situazione, oltre che l’interesse mediatico, si sono aggiunti anche i costi dovuti ai continui rinvii dell’arrivo in sala.

La fattura delle campagne promozionali ripetutamente avviate ed altrettanto interrotte pare sia stata piuttosto onerosa, ed appesantito un budget che già in origine si avvicinava ai trecento milioni di dollari.

Tanto che, sembra ad inizio dell’anno in corso, il film era stato offerto, prendere o lasciare, alle majors cinematografiche a circa seicento milioni, ma raccogliendo proposte di acquisto solo per quattrocento.

Risultato: la pellicola è rimasta nel cassetto in attesa di tempi migliori.

Decisione tutto sommato saggia, molto saggia, perché la ripresa economica prevista nei prossimi mesi ora valorizza uno dei punti di forza di questa serie: il product placements, l’inserimento di prodotti con finalità pubblicitarie.

Facile immaginare che un recupero della libertà sociale incentiverà la propensione del pubblico mondiale ad emulare lo stile di vita dei protagonisti del grande schermo, dopo mesi di acquisti online esibiti, per ben che sia potuto andare, in mortificanti quanto instabili video-chiamate destinate ad interlocutori insofferenti quanto noi ai confinamenti epidemiologici e digitali.

Quando si parla di product placement siamo certi che ogni spettatore comprenda a cosa ci riferiamo.

Basti ricordare gli ingredienti del famoso cocktail preferito da James Bond, o il brand della sua birra, o del suo immancabile time-pièce, che noi consumatori ancora chiamiamo orologio.

Per non dire poi della marca della vettura che dal 1964, da Goldfinger in avanti è diventata il simbolo dell’agente segreto, pregi e soprattutto difetti inclusi, quando notiamo che mentre le piazze si riempiono di attivisti climatici e l’industria mondiale si converte alla propulsione elettrica, il super-eroe britannico sconfigge gli avversari ancora al volante di una auto a motore termico, cioè a benzina, la cui unica dotazione di sicurezza sono due specchietti retrovisori esterni da regolare manualmente, sporgendosi dal finestrino.

Si dirà: non perdiamoci nei dettagli.

Come in guerra ed in amore, quando si parla di libertà artistiche anche al cinema tutto è permesso.

La attesa è comunque terminata: James Bond sta ormai invadendo i cinema mondiali e l’entusiasmo del pubblico si conferma tornato a livelli pre-pandemia.

Incassi compresi, che è poi quello che incentiva produttori e consumatori, cioè tutti noi, a confermare le reciproche attitudini ed aspettative.

Perché oggi la venticinquesima puntata delle avventure di James Bond, forse più che in passato, finisce per esprimere il desiderio del pubblico mondiale di tornare ad una normalità di recente perduta ed ancora cercata.

Comprese le nostre presenti inquietudini e remote certezze, compresi i panorami da cartolina e gli esotismi che riconosciamo inverosimili ma che proprio per questo ci invogliano ad entrare in un cinema: per sentirci in qualche modo protagonisti di quegli ambienti ed affrancarci da ogni complesso di inferiorità.

Non resta dunque che godersi le oltre due ore di spettacolo, e poi uscire dalla sala di proiezione con la aspettativa di tornare ad una vita dai riferimenti che abbiamo lasciato prima della recente emergenza.

Così fosse, sinché ancora ci accompagna il ricordo delle immagini viste sul grande schermo, basterebbe questa prospettiva a convincerci che il prezzo del biglietto pagato per assistere a No time to die, tutto sommato, sono soldi ben spesi.

Anzi: è l’ultimo dei problemi con cui nei prossimi mesi dovremo convivere.

L’immagine:
Daniel Craig stars as James Bond in NO TIME TO DIE an EON Productions and Metro-Goldwyn-Mayer Studios film. Credit Nicola Dove. © 2021 DANJAQ, LLC AND MGM. ALL RIGHTS RESERVED