Come nasce la Fondazione Comunitaria del Varesotto e quali sono i suoi scopi statutari ha?
«La Fondazione Comunitaria del Varesotto, come le altre fondazioni analoghe di area lombarda, ha origine alla fine degli anni Novanta del secolo scorso su ispirazione dell’allora presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti. Nata da poco come fondazione di origine bancaria, con lo scorporo del patrimonio dalla gestione della Cassa di Risparmio, si era posta il problema di come mantenere un legame stretto su un territorio di 11 milioni di abitanti (tutta la Lombardia e le due province piemontesi di Novara e Verbania) non potendo più avvalersi degli sportelli della banca. La scelta avrebbe potuto essere quella di un decentramento amministrativo creando uffici provinciali. Si preferì, dopo avere opportunamente studiato l’esperienza ultradecennale analoga di alcune realtà statunitensi, promuovere la nascita di fondazioni che rappresentassero le comunità provinciali stimolando i soggetti locali (privati, comuni, aziende, ecc.) a sostenere queste nuove iniziative anche tramite il meccanismo della cosiddetta “sfida”, ovvero mettendo a disposizione per ogni euro raccolto un altro euro fino a giungere a 10 milioni. Sfida raccolta e conseguite, fu così che nel 2002 la Fondazione del Varesotto cominciò la sua missione».
Qual è la vostra relazione operativa con Fondazione Cariplo?
«Pur essendo un organismo giuridicamente autonomo, la Fondazione Comunitaria mantiene uno stretto legame con la Fondazione Cariplo con la quale collabora in diversi modi facendo da tramite con il territorio. Si pensi ad esempio alle cosiddette sovvenzioni territoriali. Cariplo ha riservato per se la gestione delle erogazioni più significative, legate a progetti dal valore superiore ai 100.000 euro. Coinvolge però le fondazioni comunitarie nell’esame e nella valutazione relative a richieste di contributi sui bandi cosiddetti “emblematici”. Soprattutto gestisce in piena autonomia, pur sottostando a linee di indirizzo concordate, la gestione dei cosiddetti fondi territoriali che vengono messi a disposizione ogni anno per i progetti di minore entità. Anche nell’anno appena trascorso Cariplo ha stanziato alla Fondazione del Varesotto circa un milione e mezzo di euro per tale finalità».
Parliamo di diritti di fondatori e mecenati: avete dato vita con Fondazione Cariplo a una mostra sul mecenatismo varesino. Colpisce il numero e l’intensità dell’attività di questi mecenati a favore della città. Varese ha una cultura del mecenatismo anche oggi e che cosa differenzia i mecenati di allora da quelli di oggi?
«La nostra provincia ha avuto una forte tradizione in passato sia di mecenatismo che di attenzione al sociale. Nel secondo dopoguerra questa propensione è stata messa un po’ in sordina, non eclissata del tutto ma certamente meno valorizzata. I mecenati di fine ottocento facevano un punto d’onore delle loro scelte quasi fosse una dovuta restituzione di parte di quelle risorse che con il loro genio e la loro operosità avevano accumulato. Oggi il fenomeno è altrettanto presente ma vissuto con più discrezione, dopo lunghi anni di attacchi strumentali frutto di ideologie pauperiste. Per certi versi si sta assistendo ad una ripresa che va incoraggiata ad aiutata anche per ricostruire la condivisione di una cultura del dono che tutti accumuna».
Come ha vissuto personalmente questo periodo di pandemia e che impressione le ha fatto la grande ondata di solidarietà che ha visto coinvolte centinaia di persone in Italia per una raccolta fondi senza precedenti?
«La pandemia è stata un’esperienza inattesa e sconvolgente che ci ha messo di fronte alle nostre debolezze e alla necessità di rideclinare valori e priorità. Oltre al timore per la propria salute e la stessa vita, ha molto pesato il clima di incertezza economica che ha portato molte famiglie a scivolare da una vita normale alle soglie della povertà».
A quali progetti ha dato vita la vostra fondazione a Varese nella prima fase della pandemia e ora in questa seconda fase e perché?
«Durante la prima fase primaverile della pandemia, la Fondazione comunitaria del Varesotto ha lanciato una raccolta fondi straordinaria, denominata “Insieme per Varese”, finalizzata a sostenere iniziative legate all’irrompere della pandemia e a rispondere ai bisogni anche drammatici che ne scaturivano:
- Potenziare e/o attivare servizi di prossimità a supporto della domiciliarità forzata di soggetti in condizioni di fragilità permanente o temporanea;
- Gestire servizi di assistenza per quelle categorie di utenti e/o operatori rimaste scoperte dai servizi ordinari;
- Sostenere acquisto di strumentazione e apparecchiatura a supporto delle strutture e delle organizzazioni impegnate in prima linea per l’assistenza sanitaria;
- Riattivare iniziative di socialità comunitaria, non appena l’emergenza finirà.
Successivamente è stata lanciata una seconda raccolta fondi e soprattutto si sono modulati i bandi ordinari per venire incontro alle esigenze anche indirette causate dalla situazione che la società stava vivendo. Si sono presi pertanto in considerazione progetti finalizzati a:
- Saldare i legami e le collaborazioni delle organizzazioni del terzo settore con i diversi soggetti (singoli individui, reti famigliari, comunità ed enti pubblici) che vivono e operano nei contesti di vita, specie i più critici e vulnerabili, per favorire la ricomposizione delle risorse e la messa a sistema delle risposte;
- Riprogrammare e ripartire dopo la sospensione, il ridimensionamento e il ripensamento dei servizi alla persona imposti dall’emergenza Covid-19, creando anche occasioni di rielaborazione dell’esperienza e delle fratture create nelle nostre comunità;
- Costruire la fiducia, il senso di appartenenza e la solidarietà fra le persone che vivono le comunità e i territori.
Per fare un esempio si sono presi in carico i progetti per i campi estivi dei bambini che avevano la necessità di uscire da un isolamento terapeutico durato mesi».
Che cosa avete imparato dalla pandemia in termini di operatività e come si modificherà il vostro modo di lavorare con il mondo non profit?
«Sotto il profilo operativo la pandemia ha costretto la Fondazione ha fare parecchi pasi in avanti. Penso all’uso delle tecnologie, che pure preesistevano ma che non sempre erano sfruttare al pieno della loro potenzialità. Non potendosi vedere in presenza i consiglieri hanno cominciato ad incontrarsi in via telematica moltiplicando le occasioni e le riunioni. Questo ha consentito anche di sveltire le procedure per l’erogazione dando risposte certe in tempi brevi. La stessa comunicazione ne ha beneficiato aumentando il numero dei fruitori».
Che cosa si aspetta dalle istituzioni che state sostenendo in termini di progettualità e di rendicontazione?
«Penso che le istituzioni, penso non solo agli enti locali, ma anche alle aziende sanitarie ed ospedaliere si siano rese conto dell’importanza di stabilire collaborazioni strutturate non episodiche. Siamo stati riconosciuti come alleati credibili ed affidabili in un momento così delicato».
Qual è la sua visione, che cosa deve cambiare nella filantropia internazionale perché quest’ultima diventi ancora più efficiente?
«Occorre ancora fare molto per accrescere la trasparenza in modo da aumentare la reputazione. La nostra gente è ben predisposta a donare ma vuole avere la garanzia che il suo gesto vada a buon fine. Questo non sempre avviene, a volte per pressapochismo, altre volte per motivi truffaldini. Bisogna fare di tutto per mostrarsi affidabili, esserlo veramente nonché saper cogliere i bisogni più rilevanti di ogni momento storico».
Ecco il nostro racconto della mostra promossa dalla Fondazione, riguardo al mecenatismo tra 800 e 900.