Il concetto di mecenatismo risale a un personaggio maschile, Gaio Cilnio Mecenate, ricco promotore delle arti e consigliere dell’imperatore Augusto. Anche il mecenatismo femminile può essere riconducibile alle stesse origini?

«Certamente. Durante l’Impero romano le donne godettero per la prima volta di un certo margine di azione e di diritti che erano stati loro negati per secoli. Sorprendentemente, questo è un dato poco noto. All’epoca di Mecenate, ad esempio, fu Ottavia, sorella dell’imperatore Augusto, a sostenere l’architetto Vitruvio tanto da permettergli di scrivere il celebre De architectura. La stessa Ottavia fondò una biblioteca con importanti testi greci e romani che ottenne grandi riconoscimenti. Un altro esempio è Argentaria Polla, vedova del poeta Lucano, che aiutò numerosi scrittori e poeti, come Stazio e Marziale. Quest’ultimo la menziona nei suoi Epigrammi (Libro X, 64), con l’appellativo di “regina” in segno di stima e rispetto verso la sua mecenate. In passato innumerevoli donne hanno avuto un ruolo attivo nella promozione di artisti e professionisti, nonostante le loro possibilità e la percezione che l’opinione pubblica aveva dei loro progetti fossero inferiori a quanto lo siano oggi».


A partire da questa eredità, come possiamo definire oggi la filantropia femminile?

«Oggi la filantropia femminile comporta la costruzione di relazioni di fiducia e scambio con persone e organizzazioni della società civile, mediante il sostegno economico, la messa a disposizione di know-how e di reti di contatti, per la cura, la generatività e il supporto a una crescita equa e sostenibile. Alcune parole-chiave come la costruzione di relazioni durature, la cura e la generatività, infatti, contraddistinguono da sempre l’universo femminile».


In passato quali sono stati i fattori che hanno influenzato il coinvolgimento delle donne nelle attività filantropiche? Quali motivi le hanno spinte al mecenatismo?

«A lungo il comportamento altruista femminile è stato dettato da un mix di convinzioni religiose e spinte etiche: dalla pratica dell’amore per il prossimo come via per la redenzione individuale, fino al coinvolgimento personale nei confronti di poveri e bisognosi. In passato l’attività filantropica femminile era dominio di donne che appartenevano al ceto nobiliare o molto facoltoso e sentivano il desiderio di impegnarsi in favore dei più deboli e di promuovere la cultura costruendo la propria immagine su due pilastri: quanto possedevano e quanto donavano. La filantropia, quindi, costituiva un mezzo di auto-affermazione, non di emancipazione. Seguendo l’etichetta, le ragazze di buona famiglia dovevano impegnarsi in progetti filantropici, e una volta sposate, queste donne avevano il dovere sociale di mantenersi attive occupandosi principalmente dei dintorni della loro abitazione. Le attività filantropiche divenivano così un argomento di vanto nei salotti. Durante Rinascimento le arti rifiorirono e con esse si diffuse anche una filantropia tutta al femminile colta e illuminata. L’educazione e i doveri propri della classe sociale di appartenenza, come pure l’aspirazione al prestigio e all’apprezzamento individuale motivarono fortemente il mecenatismo, insieme alla possibilità di agire in modo creativo al di fuori delle mura domestiche. Nell’alta borghesia dell’Ottocento vi furono importanti donne mecenate e filantrope che dai loro salotti diedero impulso al pensiero moderno. Dopo la grande guerra queste donne, attraverso la loro attività filantropica, favorirono i grandi cambiamenti sociali e i graduali processi di emancipazione che ne conseguirono».


Quali origini ha la filantropia in Svizzera?

«Anche in Svizzera la filantropia femminile ha origini antichissime: “Anna Seiler, nel 1354, per via testamentaria lasciò interamente la sua eredità a una fondazione finalizzata alla nascita del policlinico universitario Berner Inselspital. Il dato particolarmente interessante è che la benefattrice descrisse nei minimi dettagli che cosa i politici potessero fare o meno con il suo patrimonio, e lo fece servendosi di un linguaggio assertivo e molto diretto, così che il suo testamento rappresenta ancora oggi un valido modello da seguire, benché l’istituzione della fondazione risalga ormai a oltre 650 anni fa” (cfr. Corriere del Ticino 8.6.2018). Questo non è un caso isolato. In Svizzera sono numerosi gli esempi interessanti e degni di dota che ereditiamo dal passato. A Basilea, le tre sorelle Anna Elisabeth Burckhardt Vischer, Charlotte His-Vischer e Juliana Birmann-Vischer (https://alumni.medizin.unibas.ch/index.php/geschichte/jahrhundert-der-ordinariate/kinderchirurgie?id=121) istituirono la Fondazione Kinderspital, l’ospedale per l’infanzia, e dopo la loro morte, lasciarono alla fondazione tutti i loro beni. Inaugurata nel 1862, è stata la prima clinica pediatrica della Svizzera e per molti decenni è rimasta il punto di riferimento, anche architettonico, per gli ospedali pediatrici. Se pensiamo alla filantropia femminile dei primi anni dell’Ottocento non possiamo dimenticare le sorelle Jeanne Françoise e Henriette Rath a Ginevra e il loro Museo Rath, un edificio in stile neoclassico inaugurato nel 1826 su Place Neuve: si tratta di uno dei primi edifici in Europa ad essere stato concepito per accogliere un museo nel quale esporre le ricche collezioni di dipinti di proprietà della città di Ginevra o alla donazione fatta nel 1890 da Lydia Welti-Escher, che lasciò alla Confederazione Svizzera il suo intero patrimonio, poi trasformato nella Fondazione Gottfried Keller».


Il nuovo ruolo della donna, la cui posizione è stata rafforzata da una migliore istruzione, dall’accesso agli studi universitari e a lavori qualificati, uniti a una crescente indipendenza economica, ha avuto effetti concreti sulle attività filantropiche?

«Oggi la maggior parte delle donne filantrope opera con spirito imprenditoriale, utilizzando le esperienze e il know-how acquisito nella propria vita professionale. Per la prima volta nella storia della filantropia femminile, abbiamo a che fare anche con donne che hanno creato da sole le basi del proprio benessere economico o hanno incrementato considerevolmente le loro finanze. Carolina Müller-Möhl e Mirjam Staub-Bisang, ad esempio, sono due dinamiche imprenditrici e benefattrici di Zurigo che hanno messo a punto metodi di successo, mentre Kathryn List intende sfruttare la sua esperienza americana di direttrice teatrale all’interno della AVL Cultural Foundation.
Ci sono poi alcune donne mecenate che guidano l’innovazione su temi e problemi che la società affronta solo marginalmente. Un esempio in tal senso è la collezionista d’arte Ingvild Goetz, con il suo instancabile lavoro a favore dei richiedenti asilo. Lo stesso vale per Hilde Schwab che con il premio Social Entrepreneur of the Year, per l’imprenditore sociale dell’anno, ha creato una tendenza ricca di promesse. Sempre più spesso osserviamo anche un nuovo approccio alla comunicazione. Penso ad esempio a Denise Benedick con il suo Leopard Club (creato con il marito Rolando) che sostiene il Festival del Film di Locarno, o a Marlies Kornfeld e alla sua ambiziosa iniziativa a favore dei bambini tibetani in Nepal: entrambe riescono a coinvolgere sempre nuovi sostenitori nei loro progetti. In tal senso le nuove filantrope hanno compreso quale sia la reale missione della comunicazione: non solo informare la società civile, ma essere portatrici di valori e fonte di ispirazione per le future generazioni di donne mecenate».


Che cosa spinge oggi le donne a impegnarsi in attività filantropiche?

«La tradizione familiare resta una fonte motivazionale molto importante. Alcune filantrope provengono da famiglie impegnate nel mecenatismo da decenni, come Ise Bosch e Janine Aebi-Müller. Anche l’esperienza personale gioca un ruolo importante: gli eventi traumatici, come ad esempio la perdita di una persona cara, possono divenire dei potenti fattori detonanti. Elena Mantegazza, a partire da una propria situazione individuale, ha dato vita a un progetto unico, l’Associazione Elisa, a favore dell’oncologia infantile. Spesso l’ispirazione viene dalla biografia di un’altra donna, come la figura della nonna per la scrittrice Susanna Tamaro o al modello di Peggy Guggenheim per Inge Rodenstock. La forza della fede e l’impegno etico restano sempre trainanti nella filantropia più efficace, come per Marie del Liechtenstein o Renata Babini Cattaneo Premoli, il cui ospedale in Congo è un brillante esempio di cooperazione per lo sviluppo sostenibile».


Nel suo libro Mäzeninnen. Denken-Handeln-Bewegen ci presenta venti ritratti di benefattrici contemporanee, che si impegnano all’interno della società nei modi più differenti. Queste donne mecenate possono essere ritenute rappresentative? Inoltre: esiste un comune “denominatore femminile”?

«Le venti donne ritratte nel libro sono rappresentative della molteplicità di motivazioni e interessi che spingono all’attività mecenatistica. “La mecenate” in senso assoluto non esiste; esistono, piuttosto, molteplici declinazioni di questo concetto e delle sue applicazioni pratiche. Queste donne hanno dimostrato qualcosa di molto speciale: hanno avuto il coraggio di manifestare le proprie convinzioni e hanno saputo mettersi in discussione. In questo modo sono diventate degli esempi che hanno incoraggiato e motivato altre donne. Le ammiro proprio per questo coraggio.
E sì, esiste un “comune denominatore femminile”: si manifesta nell’attenzione, nella cura, e nell’esigenza tutta femminile di una “generatività culturale”. Tre qualità che definiscono l’universo femminile, tre caratteristiche che anche dopo 660 anni dalla creazione della fondazione di Anna Seiler a Berna, non hanno perso significato né efficacia» (Courtesy Stiftung& Sponsoring).