Perché ci sono cosi tante voci critiche sull’uso dell’intelligenza artificiale in filantropia?
«Penso che l’uso dell’intelligenza artificiale per scopi filantropici, se utilizzata in modo proprio, possa portare a vantaggi significativi. Però l’impiego dell’IA richiede una conoscenza approfondita della tecnologia e il rispetto delle implicazioni etiche a essa connessa.
Alcuni critici sostengono che il suo uso in filantropia possa mancare di trasparenza, e rendere difficile per i potenziali beneficiari la comprensione di decisioni e distribuzione dei fondi.
Altri temono che i sistemi di intelligenza artificiale possano assimilare pregiudizi o discriminazioni inconsci presenti nei dati utilizzati per addestrare i modelli, portando così a decisioni ingiuste o discriminatorie.
C’è anche chi ritiene che l’Intelligenza artificiale possa portare alla sostituzione delle interazioni umane e alla perdita di empatia e compassione nella filantropia, mentre gli specialisti temono che l’uso diffuso di questa tecnologia nelle attività filantropiche possa concentrare il potere decisionale nelle mani di consulenti esperti, che fanno da filtro ai mecenati, riducendo la diversità di prospettive e impedendo la partecipazione di una varietà di stakeholders nella filantropia. Certo è che un suo uso indiscriminato comporta rischi di sicurezza e privacy, specialmente se i dati sensibili vengono utilizzati per addestrare i modelli di IA».
Trova che queste critiche siano ingiustificate?
«Sono convinta che non ci si possa opporre all’evoluzione tecnologica e l’intelligenza artificiale possa essere utile nella fase di ricerca e per il reperimento delle informazioni di dominio pubblico ma disperse in internet e nelle banche dati.
Non si tratta di controllare la sfera personale del potenziale mecenate, ma di reperire le informazioni di dominio pubblico che altrimenti non saremmo in grado di raccogliere così velocemente. L’intelligenza artificiale può essere anche utile nella fase della prima compilazione della richiesta di contributo a un mecenate».
Per ciò che riguarda la sicurezza i timori sono infondati?
«Ritengo che l’utilizzo dell’intelligenza artificiale richieda una formazione preventiva atta a creare le basi per usare lo strumento con cognizione di causa. I rischi sono reali, e comprendono fra gli altri la vulnerabilità alla manipolazione. C’è il rischio, infatti, che i risultati ottenuti si possano utilizzare per compiere azioni dannose o fraudolente, come per esempio il furto di dati sensibili o la diffusione di informazioni false. Inoltre l’IA è in grado di elaborare una grandissima mole di dati personali, e ciò potrebbe ledere la privacy degli individui in oggetto, e diventerebbe anche difficile individuare eventuali responsabilità in caso di danni acquisiti. Concordo con Gray Scott, futurologo, che sostiene: “La vera domanda è: quando redigeremo una carta dei diritti sull’intelligenza artificiale? In cosa consisterà? E chi potrà deciderlo?”.
Qual benefici porta quindi a un filantropo l’uso dell’intelligenza virtuale?
«Può aiutare i filantropi e i loro consulenti a reperire velocemente informazioni dettagliate sulle organizzazioni non profit, ma anche su musei e teatri, e di analizzare i dati per identificare non solo progetti in cerca di fondi, ma tematiche urgenti, aree scoperte che fanno fatica a essere supportate.
L’intelligenza artificiale può, in fase di analisi, velocizzare la raccolta dati per interventi di filantropia sistemica, tesi quindi non a sostenere un determinato progetto, ma a risolvere un problema in modo sostenibile.
L’IA può essere d’aiuto anche nel misurare l’efficacia delle attività filantropiche, per monitorare e valutare continuamente la bontà dei loro contributi e valutare l’impatto finale delle proprie elargizioni. Una delle sfide più importanti del momento è proprio il contenimento dello sperpero di investimenti filantropici».
In quale modo l’intelligenza artificiale può essere d’aiuto, invece, a un’organizzazione culturale o sociale per individuare un potenziale filantropo?
«Si sta lavorando per collegare i chatbot ad alcune banche dati già esistenti e non solo legate al mecenatismo, per riuscire a identificare, con l’uso di parole chiave, potenziali filantropi che si interessano di determinati temi, anche se questo potrebbe comportare una serie di problematiche legali, inerenti al possesso delle informazioni oltre che alla loro distribuzione. Inoltre, l’intelligenza artificiale collegata a informazioni di pubblico dominio su internet, può essere utilizzata per monitorare e analizzare il comportamento online e offline di potenziali mecenati, permettendo alle organizzazioni non profit di personalizzare in modo più efficace i loro approcci di raccolta fondi e coinvolgere in modo più mirato i filantropi che hanno una maggiore propensione a sostenerli.
Tutto ciò può essere gestito creando interfacce all’uso dell’intelligenza artificiale che offrano una sorta di barriera fra chi usa questa tecnologia e il chatbot stesso, così da permettere di accedervi minimizzando i rischi per la sicurezza».
Ma tutto questo basta?
«Direi di no. Le informazioni identificate sono solo una base, ma quelle più importanti, che veramente permettono di far incontrare chi dona e chi chiede, richiedono la conoscenza personale, l’ascolto profondo. I software velocizzano la prima fase, ma non sostituiscono l’uomo».
In che modo l’intelligenza artificiale può essere d’aiuto nell’elaborare un documento per un filantropo in caso di richiesta di contributo?
«Esistono già oggi banche dati filantropiche che pre-impostano l’uso del chatbot con una struttura per la lettera di accompagnamento e una struttura per la richiesta di contributo. Lo possiamo immaginare così: si inserisce la struttura di un progetto e in pochi secondi la macchina elabora una richiesta di contributo così come gli standard professionali la richiedono.
Questa funzione può essere molto utile per soggetti richiedenti inesperti o che hanno difficoltà a riassumere contenuti complessi. Il risultato ottenuto va rivisto, e il rischio a cui siamo esposti è quello di avere una serie di documenti tutti uguali, ma questo titpo di funzione può facilitare molto il lavoro di chi cerca sostegno economico.
Un’altra funzione significativa è quella di riscrittura, di verifica formale e di controllo della punteggiatura dei testi. Per chi, per esempio, padroneggia male le lingue, può essere una soluzione per ottenere le bozze».
Quali sono le sue riflessioni sull’uso dell’intelligenza artificiale per scopi umanitari e sociali da parte dei filantropi?
«Sono convinta che l’uso dell’intelligenza artificiale possa avere vantaggi se utilizzata equamente. Per esempio per migliorare l’accesso all’istruzione e alla sanità nei paesi in via di sviluppo, e facilitare la distribuzione equa delle risorse. Tuttavia questo funziona solo a certe condizioni: che si promuovano programmi educativi per consentire un accesso responsabile ai chatbot. Occorre poi che i benefici dell’intelligenza artificiale siano accessibili a tutti».
Possiamo fare esempi di progetti di intelligenza artificiale finanziati da filantropi?
«Mi rifaccio alle esperienze di alcuni importanti mecenati, come per esempio Jim Breyer, un importante venture capitalist americano, tra l’altro investitore in molte aziende di successo, tra cui Facebook. Breyer, grazie ad alcuni modelli di IA, si sta attivando per aggiornare l’assistenza sanitaria personalizzata grazie all’impiego di biotecnologie.
Oltre a lui anche Pierre Omidyar, il fondatore di eBay, è un filantropo assai impegnato con la sua Omidyar Network, che punta a creare nuove opportunità di impiego attraverso importanti investimenti in organizzazioni innovative e quindi garantire uno sviluppo economico e sociale. Infine citerei Patrick Soon-Shiong, celebre chirurgo e uomo d’affari, fondatore di NantWorks, una rete di startup sanitarie, biotecnologiche e di intelligenza artificiale, che ha deciso di donare alla filantropia la metà delle sue ricchezze, garantendo così un significativo apporto alla ricerca tecnologica.
Ci regala una considerazione finale?
«Occorre non cedere a facili entusiasmi, ma nemmeno farsi prendere da eccessivo timore, da visioni catastrofiche, dalla paura di perdere la propria identità in un mondo solo digitale. Una stupenda citazione di Anaïs Nin ricorda che “La vita si restringe o si espande in proporzione al nostro coraggio, o viceversa alla nostra paura”. Spesso, infatti, abbiamo timore di ciò che non conosciamo, ma proprio nell’inesplorato potrebbero celarsi opportunità straordinarie».