In che modo oggi la filantropia si può considerare strumento concreto per promuovere la pace?

«La filantropia costruisce ponti là dove la politica e la diplomazia non riescono ad arrivare. Agisce con discrezione e rapidità, superando ostacoli burocratici e intervenendo in territori fragili, spesso dimenticati. Il suo contributo è concreto: finanzia iniziative che favoriscono il dialogo, la riconciliazione e la ricostruzione sociale. Come la Berghof Foundation, nata nel 1971 per volontà del fisico e imprenditore Georg Zundel, che da allora lavora per risolvere pacificamente i conflitti. In Mali, dopo la crisi del 2012, il progetto Supporting Insider Mediation ha facilitato il dialogo tra gruppi armati e comunità locali per ridurre la violenza. Attraverso l’analisi del conflitto, la formazione alla mediazione e il rafforzamento delle capacità locali, ha contribuito a creare condizioni strutturali favorevoli alla convivenz.

Ma la pace non si costruisce solo con le parole: si costruisce anche con mattoni, con acqua, con istruzione. La Fondazione Aga Khan lo dimostra in Afghanistan, dove ha portato scuole, ospedali e sistemi idrici in regioni devastate come Badakhshan e Bamiyan, offrendo dignità e futuro dopo decenni di guerra.

E mentre nel mondo 128 milioni di bambini restano esclusi dall’istruzione a causa di conflitti e disastri, la Jacobs Foundation di Zurigo interviene con tempestività e flessibilità, collaborando con il Geneva Global Hub for Education in Emergencies per garantire accesso alla scuola anche ai più vulnerabili: rifugiati, sfollati, dimenticati». 

Qual è stato, secondo lei, un esempio chiaro in cui un’iniziativa filantropica abbia contribuito direttamente alla riduzione di un conflitto armato?

«Quello della Fundación para la Reconciliación, istituita da padre Leonel Narváez, protagonista riconosciuto nel campo della giustizia riparativa e della costruzione della pace, soprattutto in Colombia. Narvaez ha creato le cosiddette Espere (Escuelas de Perdón y Reconciliación), parte di un processo pedagogico e metodologico cui ha dato vita nel 2003 attraverso questa fondazione e che offrono strumenti per gestire le emozioni negative, superare il risentimento e la vendetta, e promuovere il perdono e la riconciliazione per sanare le ferite causate da offese e conflitti. La pace infatti non si firma soltanto: si costruisce, sanando le ferite profonde di un popolo».

Come vengono allocati i fondi filantropici in contesti post-bellici per favorire la riconciliazione tra comunità divise?

«Il cammino verso la pace può essere rafforzato dall’attività filantropica, che sa supportare diverse iniziative locali adeguate, come accade per esempio in Colombia. Qui la United Nations Peacebuilding Fund, in collaborazione con fondazioni erogative norvegesi e svedesi quali The Rafto Foundation for Human Rights e The Olof Palme International Center, ha istituito un fondo post-bellico per promuovere la pace attraverso programmi di educazione, sminamento e reintegrazione delle vittime del conflitto armato.

Fondazioni come la  Rockefeller  . Brothers  Fund, poi, hanno sostenuto progetti di dialogo interreligioso programmi educativi che promuovono una narrazione condivisa del  conflitto, evitando revisionismi e favorendo il dialogo tra le generazioni

Programmi filantropici che permettano alle vittime dei conflitti di essere seguite da terapeuti formati, capaci di sostenerle nell’elaborazione di traumi e ricordi disturbanti, e progetti mirati per aiutare le comunità a non considerare le armi come parte della quotidianità rappresentano un passo fondamentale verso la ricostruzione di una cultura della riconciliazione. In questo modo si riduce il rischio di ricaduta nella violenza armata e si rafforzano le istituzioni civiche in contesti dove lo Stato è debole». 

Quale ruolo può avere l’arte nei processi di ricostruzione post conflitto?

«Consentire per esempio una forma di catarsi: il trauma viene reso visibile, ascoltato. La memoria può riemergere senza essere negata. Una croce costruita con il legno di scafi affondati, un’installazione realizzata con le macerie di un centro abitato distrutto, sono gesti che danno vita a un processo consapevole di riflessione interiore. Non risolvono il dolore, ma lo rendono affrontabile e aprono la strada a una trasformazione personale. La Fondazione Calouste Gulbenkian, con sede in Portogallo, ha per esempio investito in progetti artistici e culturali che promuovono il rispetto delle diversità e la memoria condivisa». 

Come si bilancia il sostegno filantropico tra interventi umanitari immediati e investimenti a lungo termine per la pace?

«Le fondazioni che mirano a essere più efficaci sono attive su due livelli: da un lato contrastano l’emergenza con aiuti rapidi per bisogni urgenti (come cibo, rifugio, assistenza medica), dall’altro selezionano progetti di lungo periodo che promuovono coesione sociale, educazione, governance inclusiva e sviluppo economico sostenibile».

Quali sono gli errori più comuni che le organizzazioni filantropiche commettono quando cercano di promuovere la pace? 

«All’esplodere di un conflitto – o alla sua conclusione, – si è facilmente tentati da un attivismo impulsivo. Ciò che invece davvero serve è un percorso riflessivo e progressivo. Le organizzazioni filantropiche, spesso animate da buone intenzioni, rischiano di fallire quando ignorano il contesto politico e culturale locale, affrontano problemi complessi con approcci semplificati e impongono visioni esterne di ciò che è giusto o sbagliato».

Esistono settori specifici (educazione, sanità, media) in cui la filantropia ha un impatto più diretto sulla prevenzione dei conflitti?

«Lo sviluppo di economie locali, l’educazione, la sanità e l’investimento nell’informazione indipendente incidono sulle cause profonde dell’instabilità. La creazione di microeconomie a livello locale contribuisce ad arginare l’influenza delle organizzazioni violente.

L’educazione aiuta le persone a pensare in maniera autonoma, a rispettare culture e tradizioni religiose diverse e a partecipare alla vita della comunità. La Fondazione Ford ha sostenuto in vari Paesi del mondo progetti educativi volti ad aiutare i giovani a vivere insieme in modo pacifico.

La sanità, nel senso della prevenzione e dell’assistenza accessibile anche ai più poveri, è un pilastro della fiducia fra stato e cittadini. Fermo restando che la salute è un ambito di competenza degli Stati, le fondazioni filantropiche possono contribuire là dove i mezzi economici che i governi possono investire non sono sufficienti.

Il sostegno al giornalismo e ai media indipendenti gioca un ruolo fondamentale nel contrastare la propaganda politica e la disinformazione, favorendo al tempo stesso maggiore trasparenza dell’informazione. Sempre più fondazioni internazionali, quali la Thomson Reuters Foundation, si impegnano per garantire l’accesso a contenuti affidabili, strumento fondamentale per opporsi a politiche di indottrinamento (https://www.trust.org/)».

Come si può capire se un progetto per la pace funzionerà anche dopo la fine dei finanziamenti, e quali strategie aiutano a chiudere il sostegno in modo efficace?

«Una progettualità efficace da parte delle fondazioni filantropiche prevede la permanenza in loco per cicli ben definiti e interventi strutturati, fatti in modo che ogni decisione sia frutto di una valutazione maturata con le realtà locali, ci siano processi di apprendimento sistematico dove è necessario, e che la fondazione erogativa lasci quando il progetto è consolidato. Un approccio del genere pianifica l’uscita fin dall’inizio, con il trasferimento graduale delle responsabilità ai partner locali e si assicura che ci siano tutte le condizioni quadro perché i progressi acquisiti possano essere mantenuti, con un monitoraggio attento per tutta la durata del progetto»

Oggi la filantropia globale può contribuire concretamente alla pace?

«La pace nasce anche dalle narrazioni che ci circondano: se siamo immersi in modelli aggressivi, diventa difficile coltivare valori come dignità, giustizia e rispetto. Occorre raccontare il mondo in modo diverso e, da lì, stimolare una riflessione sulla mentalità collettiva e su ciò che serve per costruire una cultura della pace. In questo contesto, una filantropia che ponga al centro le persone e promuova la diffusione di un’etica della non violenza può svolgere un ruolo meraviglioso».

*Dr. Dr. Elisa Bortoluzzi Dubach, consulente di Relazioni Pubbliche, Sponsorizzazioni e Fondazioni, è docente presso varie università e istituti superiori in Svizzera e Italia e co-autrice fra gli altri di La relazione generosa. Guida alla collaborazione con filantropi e mecenati (www.elisabortoluzzi.com).