Partiamo da qui: mi è capitato spesso di intervistare giornalisti tra i 25 e i 40 anni e molti mi hanno parlato dell’importanza dell’incontro con lei per la loro carriera. Insomma, da molti è considerato un mentore, ne è consapevole?

«Consapevole non so, di certo enormemente compiaciuto. Ho sempre cercato di applicare il metodo che la generazione precedente ha usato con me e che mi pare possa valere in qualunque campo quando ci deve essere un passaggio di conoscenze e di professionalità, non solo nel giornalismo: dare fiducia ed essere interventisti in senso buono, consigliare dicendo io farei cosi».

La sua carriera è lunghissima ma quello che sorprende – specialmente pensando all’editoria di oggi, dove le grandi testate in Europa cambiano spesso direttore – è la sua lunghissima permanenza alla RSI e anche la sua lunghissima dirigenza…

«Ho iniziato a 24 anni con il tg a Zurigo, il telegiornale allora si faceva lì, e nel 2022 andrò in pensione. Ci sono state tante occasioni di cambiare, qualche lusinga arrivata dall’esterno, ma ho avuto anche così tante possibilità all’interno dell’azienda, che ho sempre sentito che la cosa migliore era stare qui, che qui avevo le chance di crescere, umanamente e professionalmente, di cui avevo bisogno. L’unica cosa che mi manca è la carta stampata. L’ho fatta solo da giovanissimo e ovviamente mi è capitato di scrivere qualche commento o editoriale, ma non mi sarebbe dispiaciuto provare l’esperienza di scrivere quotidianamente».

Come si svolge la giornata del direttore della RSI e quali sono le principali difficoltà?

«La giornata è fatta principalmente di incontri, tantissimi incontri, che sono parte del bello di questa posizione. La difficoltà maggiore è la densità dei temi, i tanti aspetti che ti trovi ogni giorno a trattare quando dirigi una rete, per questo è indispensabile circondarsi di persone competenti, a cui poter delegare con fiduciosa sapendo che non solo faranno bene il loro lavoro, ma lo faranno in sintonia con te, con il tuo modo di pensare la professione e l’azienda. Un altro aspetto di cui comincio ad avvertire il peso (mentre fino a qualche tempo fa era una cosa bella…) è l’aspetto nazionale di questo ruolo, che ti spinge a viaggiare moltissimo».

Che anni sono stati, dentro e fuori la rete, quelli della sua dirigenza?

«Anni tosti, appassionanti ma difficili, è successo di tutto, dentro e fuori, dal bisogno di ristrutturazione che ha toccato l’azienda al coronavirus. Poi c’è il nostro ruolo nazionale, in cui vivi lo stress di dover sempre bilanciare, stare in equilibrio tra esigenze globali e istanze regionali. Hai sempre bisogno di avere uno sguardo dall’alto su tutta l’azienda, cercare di tener conto di ogni esigenza “del piccolo”, ma sapendola declinare all’istanza globale».

Adesso che vede avvicinarsi la pensione, quali sono le preoccupazioni legate all’azienda?

«Prima di tutto i difficilissimi mesi che mi aspettano da qui alla pensione: condure la RSI nella fase dopo il coronavirus, con le difficoltà economiche che l’emergenza sanitaria ha causato in tutto il Paese e sfruttando le modalità nuove di fare comunicazione, quelle che abbiamo dovuto inventare per affrontare questo momento di distanza sociale e di lockdown e che forse ci possono lasciare in eredità qualcosa di buono e innovativo per il prossimo futuro. Poi c’è la volontà di lasciare l’azienda in una situazione il più possibile stabilizzata, soprattutto sul piano della ristrutturazione finanziaria, continuando a porre le basi per digitalizzazione, integrazione e nuove forme di distribuzione».

Com’è fare il giornalista al tempo del coronavirus?

«In questi mesi il tema della responsabilità è diventato centrale. Il ruolo dei media in realtà ti obbliga sempre a tenerlo presente, a ricordare che ogni parola o immagine deve essere soppesata perché ha un impatto forte su chi ci legge, guarda o ascolta. Ma in questo momento pesa ancora di più: lo scontro polemico, la critica, come vanno trattati? Documentare è giusto, ma va fatto con ancor più attenzione del solito. Questo non vuol dire spegnere il senso critico ma valutare con attenzione le parole, ricordarsi – come diceva Carlo Levi – che sono pietre».

E dopo la fine dell’emergenza, almeno di quella sanitaria, cosa rimarrà?

«Il Coronavirus è stato una lezione forte riguardo ai mezzi, alle possibilità produttive come lo smart-working, dove però per esempio perdi la socialità del lavoro. La sfida del dopo allora è riuscire a fare una mediazione. Poi c’è stato l’aspetto emotivo, che forse noi giornalisti in un certo senso abbiamo vissuto amplificato: per chi è nato a partire dagli anni 50, tutto è sempre stato esterno, i grandi avvenimenti, le guerre – l’11 settembre, i Balcani, il Muro. Oggi, se pur con modalità diverse e forse per la collettività meno drammatiche, ma abbiamo vissuto in prima persona la paura, paura per noi e soprattutto per le nostre famiglie. E l’abbiamo vissuta a lungo: non è durata una manciata di giorni, ma mesi. Nella ripresa dunque ci vuole lucidità, equilibrio, perché in Ticino si è aperta una situazione di crisi estrema e al momento è stato istintivo sopire le tensioni in nome di obbiettivi comuni. Finita l’emergenza sanitaria, che crea unità d’intenti, riesploderanno le tensioni interne al Cantone, ma sarà così anche per la Svizzera e per l’intera Europa. Noi siamo fortunati, perché abbiamo sistemi di base – la scuola, la sanità… – che hanno una struttura molto solida, ma anche in Ticino molte cose vanno ripensato. Per esempio, saremo ancora dell’idea di intervenire sul sistema sanitario dopo aver visto quanto sia importante? Che scuola ci sarà domani in Ticino? Sarà capace di tener conto dei nuovi sviluppi? In ogni campo sarà necessario avere come obbiettivo un equilibrio sano tra sostegno dello Stato ed economia privata, scongiurando il rischio di inasprire i conflitti sociali. Questo vale per tutta Europa: le parti avranno una grande responsabilità nell’evitare lo sbriciolamento del sistema».

E lei invece? Cosa farà dal 2022 in poi? Il tempo libero la spaventa o non vede l’ora di dedicarsi ai suoi hobby?

«Sicuramente dovrò elaborare il “vuoto dell’agenda”, dal primo gennaio 2022 non sarò più il protagonista di un meccanismo faticoso ma adrenalinico. Ma sono felice di poter dedicare tempo a me e alla mia famiglia, di godere delle mie passioni, la lettura, il nuoto, il teatro, il cinema, il calcio, tutte cose che finora ho dovuto molto sacrificare».