Incontro il direttore Timbal nel suo ufficio, nessuna scrivania, ma un grande tavolo di lavoro al quale si possono sedere una decina di persone. Un’immagine dinamica che mi piace, soprattutto perché non vedo plichi di dossier, ma fogli sparsi un po’ ovunque che non hanno il tempo di impolverarsi.

Quasi un anno alla direzione di RSI, un impegno non indifferente vista la difficoltà in cui oggi i media si trovano. Ti sei mai pentito?

(Senza esitazioni). «Assolutamente mai, anzi… sono molto soddisfatto, soprattutto per i progetti che abbiamo già portato a termine. Quando sono arrivato i temi sul tavolo erano molti, ma ci siamo subito attivati garantendo la massima trasparenza alle nostre collaboratrici, ai nostri collaboratori e al nostro pubblico. Per questa ragione abbiamo dato priorità ai tagli, inevitabili, non volendo che il personale vivesse con il fiato sospeso. Parallelamente abbiamo riformato due dipartimenti e cambiato la nostra attitudine verso l’esterno. Il messaggio del cambiamento doveva essere chiaro. So che alcuni avevano scommesso che non sarei rimasto più di tre mesi ai vertici della RSI (sorride), invece sono ancora qui e come detto è una scelta che rifarei subito».

Parli sempre al plurale…

«Questo è inevitabile perché per dirigere un’azienda come la RSI bisogna essere un team, affiatato, parlo al plurale perché il mio lavoro è legato ad un gruppo di persone fidate e competenti».

Quando parli di gruppo di lavoro è inevitabile pensare a Matteo Pelli, che hai richiamato in RSI…

«Vorrei essere chiaro su questa scelta, anche perché far tornare in RSI un personaggio popolare come Matteo, personalmente, lo vedo come un atto di coraggio. Ho scelto Matteo perché ero sicuro che l’azienda ne avrebbe giovato. Ci conosciamo da sempre, ma non avevo nessun legame particolare, negli ultimi quindici anni lo avrò visto due volte… il nostro è un rapporto che risale all’infanzia. Quindi, lo ripeto, ho chiesto a Matteo Pelli di rientrare in azienda perché lo reputo una persona estremamente valida a livello professionale e unica nel panorama ticinese».

Ci sono state persone che hanno messo in dubbio la tua formazione prima che arrivassi, convinti che avresti dovuto imparare tutto da zero…

«Assolutamente no, perché da anni mi sono occupato dello sviluppo di progetti e ho uno spirito imprenditoriale che ha caratterizzato il mio operato. Il mio mestiere è essere un manager nel mondo della cultura, ossia produrre contenuti e distribuirli. Il programma non è il direttore a farlo, quindi non ho dovuto imparare un nuovo lavoro, semmai ho dovuto imparare a conoscere una nuova azienda».

Altra novità è il tuo non legame con la politica

«Con la politica c’è un dialogo aperto e schietto. Dialogo su tutto, perché di errori se ne fanno ogni giorno, ma quello che dobbiamo preservare è l’indipendenza. A livello personale, come è normale che sia, ci sono speculazioni sulla mia appartenenza politica, ma è un aspetto che trovo divertente, anche perché negli anni sono stati tre i partiti che mi hanno chiesto di candidarmi e ho sempre rifiutato».

Soffermiamoci un attimo sull’aspetto critiche, perché essere un bersaglio non penso piaccia a nessuno. Come le affronti?

«Se non sopportassi le critiche non potrei mai fare questo lavoro (sorride). Le critiche le ascolti e cerchi di estrapolare gli elementi che possono portarti a un miglioramento, se invece sono strumentali… lo capisci e le ignori. Vorrei però aggiungere qualcosa che fa parte del mio carattere e che veramente non mi piace: gli attacchi verso l’operato delle mie colleghe e dei mei colleghi, soprattutto se vengono dall’interno. Come direttore so perfettamente che sono chiamato a rispondere alle critiche verso la mia persona e verso l’azienda, ma quando si parla male delle colleghe e dei colleghi, non rispettandone il lavoro… questo non mi va. In fondo torniamo al discorso di squadra: la RSI deve diventare una grande squadra se vuole affrontare e superare le sfide future, quindi se c’è qualcosa che non va meglio dirlo subito e continuare in serenità. D’altronde la mia porta è sempre aperta e non solo in senso figurativo».

Abbiamo parlato di tagli al personale, di vicinanza ai dipendenti e anche di trasparenza, un aspetto che effettivamente in passato è mancato, non solo all’interno della RSI, ma anche nei confronti del pubblico…

«Far finta di nulla non rientra nella mia mentalità, i progetti vanno affrontati così come i problemi, anche quelli scomodi, pensiamo alle inchieste interne all’azienda… ho voluto che fossero approfondite, che non ci fossero vincoli temporali per gli accertamenti degli avvocati, ma una volta concluse, le misure legate alla cultura aziendale devono essere di rapida introduzione. I tagli sono stati dolorosi e come detto prima inevitabili, abbiamo perso 150 milioni di franchi di pubblicità a livello nazionale negli ultimi quattro anni e quindi la situazione ha imposto dei correttivi. Su tutti questi temi è importante assicurare la massima trasparenza interna, la RSI è un’azienda creativa e deve avere dei collaboratori che si sentano bene, questa è una mia priorità e solo così avremo un prodotto curato e di successo».

Abbiamo parlato di tagli al personale, di vicinanza ai dipendenti e anche di trasparenza, un aspetto che effettivamente in passato è mancato, non solo all’interno della RSI, ma anche nei confronti del pubblico…

«Far finta di nulla non rientra nella mia mentalità, i progetti vanno affrontati così come i problemi, anche quelli scomodi, pensiamo alle inchieste interne all’azienda… ho voluto che fossero approfondite, che non ci fossero vincoli temporali per gli accertamenti degli avvocati, ma una volta concluse, le misure legate alla cultura aziendale devono essere di rapida introduzione. I tagli sono stati dolorosi e come detto prima inevitabili, abbiamo perso 150 milioni di franchi di pubblicità a livello nazionale negli ultimi quattro anni e quindi la situazione ha imposto dei correttivi. Su tutti questi temi è importante assicurare la massima trasparenza interna, la RSI è un’azienda creativa e deve avere dei collaboratori che si sentano bene, questa è una mia priorità e solo così avremo un prodotto curato e di successo».

Quindi le tue proprietà sono legate soprattutto al benessere del personale…

«…e all’offerta del programma. Il prodotto – assieme a una gestione esemplare – deve sempre essere davanti a tutto, il resto è funzionale, questa è la mentalità che voglio portare all’interno della RSI. Tutte le sfide che ci aspettano le vinceremo con il programma e con la vicinanza del pubblico».

Immagino vi stiate preparando a grandi cambiamenti…

«È inevitabile, anche perché pian piano stiamo uscendo dalla fruizione lineare, quindi non si parlerà più di televisione, ma di uno schermo grande o piccolo – che può essere quello del cellulare – e ognuno di noi si creerà una fruizione su misura. La sfida ora è come adattare il nostro operato a questo epocale cambiamento. La produzione propria diventerà sempre più importante, i live, le serate speciali, l’esserci dal vivo, insomma tutto quello che le altre piattaforme non possono offrire al nostro pubblico. Questo non significa cadere nel regionalismo, ma essere un valore aggiunto nell’offerta globale».

L’intento è anche quello di conquistare nuovo pubblico…

«Sì, ma non verso sud, perché la questione diritti è complicata. Quello che vogliamo fare è guardare oltre San Gottardo, siamo una televisione nazionale e per la Svizzera italiana è importante mantenere un’identità propria che deve essere condivisa con il resto della Svizzera. Non dobbiamo esser timidi o avere complessi, siamo una minoranza, è vero, ma abbiamo tutte le potenzialità per contribuire attivamente all’identità nazionale nella sua diversità».

Torniamo a te, sei nato e cresciuto a Locarno?

«La mia infanzia l’ho trascorsa soprattutto dai miei nonni a Bignasco, in Valle Maggia, sono stati anni molto belli e sicuramente sono cresciuto come bambino non cittadino (sorride). Questo perché mia mamma iniziava ad avere un lavoro dove c’erano dei protocolli di sicurezza e quindi preferiva che io fossi tranquillo a casa dei suoi genitori. Cresciuto ho vissuto qualche anno con lei e poi ho studiato al Papio di Ascona, mentre l’Università l’ho fatta a Losanna. Cosa dire? Ero un ragazzo come tutti gli altri».

E non hai mai pensato di studiare diritto?

«Quello era l’unico paletto che mi ero messo, non avrei mai studiato diritto per non entrare nella logica del figlio di…ma alla fine queste dinamiche subentrano comunque, quindi ho seguito la mia passione e mi sono laureato in lettere».

Non volevo parlare di tua mamma, ma dopo quello che mi hai detto, una domanda devo fartela: com’è essere il figlio di Carla del Ponte?

«Ho avuto una vita stimolante, ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere persone stimolanti. Poi dall’altra parte sono cresciuto con i nonni, anche se non mi hanno mai fatto mancare nulla. Sai…quando parlavamo delle critiche e di come vivo gli attacchi…li vivo indirettamente da sempre quindi ci sono abituato. Comunque anche se mia mamma era in giro per il mondo ogni sera mi chiamava e questo mi faceva sentire un bambino normale, lei non mi ha mai facilitato le cose, in poche parole non ha mai alzato il telefono per aiutarmi e questo è un bene» (ride).

E tuo papà…

«Mio papà ogni tanto mi dice ridendo che a livello mediatico sembra che io non abbia un padre, comunque lui si è risposato e ha avuto un altro figlio, mio fratello».

Sposato, due figli ancora piccoli, di otto e nove anni, un lavoro senza orari, riesci ancora a trovare del tempo libero…

«In questo primo anno poco, ma era chiaro in questa fase del mandato, però cerco veramente di prendere quello spazio indispensabile per dedicarmi alla famiglia e a qualche giro in bici».

Sei felice di essere rientrato in Ticino o ti mancano le grandi città…

«Ora vivo a Comano e mi piace molto come comune, anche perché in pochi minuti sono al lavoro e la mia famiglia si trova bene. Penso che il Ticino abbia un grande potenziale e che sia un cantone interessante, dovrebbe solo imparare a sfruttare le sue forze al massimo. Ogni tanto la mia impressione, così come anche in altre parti del mondo, è che ci sia un’accettazione passiva. Dovremmo essere tutti un po’ più propostivi e orgogliosi, questo porterebbe anche a velocizzare progetti a favore della regione».

Questo anche per l’offerta culturale?

«L’aspetto cultura è complesso, perché l’offerta culturale della Svizzera italiana a volte è troppo ampia rispetto alla popolazione e non c’è un vero coordinamento, quindi si rischia di avere tanti eventi e poco pubblico. Non dobbiamo creare nulla di nuovo, dobbiamo coccolare e valorizzare maggiormente quello che abbiamo, penso ad esempio al LAC… ha un potenziale grande ma necessita di ambizione, sostegno e voglia di mettersi in gioco, anche sul piano internazionale».

Ma come fai ad essere sempre così propositivo…

«Da una parte penso di essere così a livello caratteriale, dall’altra so che ogni giornata ha la sua storia, che bisogna sapersi adattare, mai darsi per vinti e lottare per quello in cui si crede. Oggi il mercato è in continua evoluzione e il fatto di aver dimostrato che sia possibile cambiare un palinsesto di una radio in un mese e mezzo mi da la forza di continuare in questa direzione. Dobbiamo smetterla di pensare che tutto sia definitivo, non è questo il mio messaggio, quello che voglio dire è: si cambia, si osserva e si modifica, adatta, nulla è mai per sempre. Ricordiamoci che tutti sbagliano, è la reattività di come ci si corregge l’aspetto importante».