Incontro Paolo Sanvido al Casinò di Lugano, pranziamo accompagnati da altri colleghi di lavoro. Li ascolto parlare e riconosco subito un legame particolare, rispettoso delle gerarchie, ma che non nasconde una certa complicità, un capirsi senza troppe parole. Solo al termine del pranzo scopro che il suo approccio nei confronti delle persone è in un certo modo diverso, simile a quello utilizzato nei Paesi del Nord. Sanvido, benché sia un professionista dei numeri, predilige il contatto umano, il dialogo, il riconoscere i punti di forza di ognuno, stimolando le persone a dare il massimo.

«Sono convinto che nulla accada per caso. Mi piace la teoria della sincronicità di Jung, nessun avvenimento è un fatto accidentale, ma la nostra vita è costellata da un insieme di coincidenze. Sai, non sono sempre stato quello che sono oggi. Ho viaggiato, ho sofferto, ho perso grandi battaglie, ne ho vinte altre, e sono convinto che cattiveria e interessi personali non siano una soluzione ai nostri problemi.  Noi tutti dovremmo vivere per l’interesse del Paese».

Le tue riflessioni sembrano scontrarsi con quelle di una mente analitica, abituata ai numeri e al far tornare i conti…

«Non è il tipo di posizione che occupiamo a definirci, ma i nostri obiettivi. È vero, ho una mente analitica, ma una cura delle risorse umane molto sensibile. Ho diversi lavori, non posso definire esattamente quello che faccio, potrei darti un’idea dicendoti che sono uno stimolatore di persone. Dò un’importanza enorme alle relazioni, a quello che le persone dicono, desiderano e cerco di stimolarle a far meglio, a trovare il loro giusto posto nel mondo lavorativo. Per me il capitale umano, senza voler fare sempre le stesse chiacchiere, fa la differenza. Questo in qualsiasi mondo. Naturalmente io mi occupo di finanza e quindi mi rivolgo soprattutto ai giovani della piazza finanziaria luganese, cerco di mostrare loro un nuovo approccio al lavoro, anche perché avendo più esperienza riesco a portare input propositivi e questo mi piace molto».

Visto che hai parlato di piazza finanziaria luganese, un tema che sta a cuore ai ticinesi, cosa ne pensi? Dobbiamo rassegnarci a doverla perdere?

«Assolutamente no, ma dobbiamo essere realisti. La vecchia piazza finanziaria è morta, inutile girarci attorno. Ci sono alcuni nostalgici che stanno cercando di recuperare il passato, ma dobbiamo renderci conto che non c’è via di ritorno e soprattutto smetterla di rovinare e ostacolare quella che vuole essere la nuova piazza finanziaria, fatta di giovani».

Ma quando dici che la vecchia piazza finanziaria è morta, significa che non genererà più gli stessi numeri?

«Sul piano di introiti non posso dirlo, ma rispetto ad altre piazze non sarà più in cima alla lista. La nuova piazza finanziaria luganese dovrà operare sul territorio, una regione importante che include anche Lombardia, Veneto e Piemonte. Dovrà avere sempre la giusta attenzione al cliente e puntare sulla qualità dei servizi, così da non temere la concorrenza. Dobbiamo anche continuare a dare priorità alla trasparenza, in passato si viveva sulla paura del cliente, che magari aveva tanti soldi, ma non tutti dichiarati. Oggi la trasparenza ottenuta è essenziale ed è questa a portare una qualità di servizio, non dimentichiamocelo».

Oggi sei l’amministratore delegato del Casinò di Lugano, presidente del consiglio di amministrazione dell’Ente Ospedaliero Cantonale. Immagino che mai avresti pensato di ricoprire questi ruoli…

«Effettivamente no, avevo altri progetti. Dopo l’apprendistato in banca volevo riprendere un’attività imprenditoriale, essere indipendente. Ma poi qualcosa non ha funzionato… e forse non è stato un male. Non penso di essere arrivato al Casinò per caso, niente capita per caso nella vita, credo ad un’energia universale che ci indirizzi dove dobbiamo andare o dove dobbiamo restare. Penso lo stesso delle relazioni lavorative, quando parli, interagisci con le persone, si crea un’energia che utilizzata bene può creare grandi punti di forza all’interno di un’azienda. Quando il Casinò necessitava di un nuovo direttore, inizialmente non ci ho pensato, ero unicamente nel consiglio di amministrazione. Poi vedendo il profilo mi sono detto: devo provarci anch’io. Mi sono sospeso dal consiglio di amministrazione e ho presentato la mia candidatura. Oggi sono qui e sono molto felice di questa scelta e dell’opportunità che mi è stata data».

Casinò, aziende forestali, EOC, ma quando dormi?

«Dormo le mie sei ore a notte e nessuno può togliermele. Non voglio entrare nel privato, ma ho fatto molte battaglie importanti in Ticino e negli anni ho dovuto imparare a conoscermi, a trovare il modo di rigenerarmi. Ho passato un periodo a non dormire, quindi oggi sto ben attento a prendermi sempre il tempo per farlo. Dormo la notte, mai di giorno, perché se per caso mi addormento due ore sul divano il pomeriggio, la notte vago per casa (ride)».

Le case da gioco hanno attraversato un momento molto difficile, pensiamo al Covid, ma anche al rinnovo delle licenze… è stata indubbiamente una strada in salita…

«È una continua sfida, il Casinò di Campione ha riaperto, abbiamo delle nuove licenze e dobbiamo in qualche modo recuperare quanto perso durante la pandemia. Inoltre c’è il gioco online, per il quale abbiamo fatto un enorme investimento… senza dimenticare il nostro legame con la Città di Lugano, che ci impedisce di avere zone grigie, il nostro lavoro deve essere eseguito nella massima trasparenza».

Ma mi parli di trasparenza eppure il gioco distrugge vite, i giocatori patologici riescono a perdere tutto quello che hanno…

«Questa visione è sbagliata, dobbiamo vedere i Casinò come delle sentinelle sul territorio, dobbiamo usarli per arginare le deviazioni del gioco patologico. In ogni caso, è importante dirlo, le dipendenze al gioco non vengono gestite da noi, ma dal Cantone, ed è un aspetto che mi sta molto a cuore. Quando sono arrivato qui, ho lavorato attivamente per coordinare tutte le attività cantonali che si occupano di problemi legati al gioco e agli abusi in generale, come farmaci, droga e alcol».

Stai molto attento al contatto umano, si vede con i tuoi dipendenti, si sente dalle tue parole…

«Sono convinto che il problema della nostra società, penso ai vari litigi e malcontenti, sia legato al fatto che non ci sediamo più attorno a un tavolo, non diamo più la giusta importanza al contatto umano. E’ un problema generale, perché parlare, entrare in connessione con le persone, implica tempo e impegno e, non da ultimo, altruismo. Come scusante spesso usiamo “tanto è sempre stato così”, invece no, dobbiamo reagire, fare qualcosa, non possiamo vivere nell’immobilismo, se no perderemo tutto».

Pensi che viviamo in una società sempre più egoista?

«È un dato di fatto che in molti guardano unicamente ai loro interessi, soprattutto finanziari, un modo di operare che crea unicamente introiti, ma non migliora il tessuto economico sociale. Noi, come Casinò, vogliamo essere attori costruttivi, ad esempio mettiamo a disposizione le nostre risorse agli altri, per favorire lo sviluppo della Regione. Dobbiamo smetterla di pensare unicamente al guadagno immediato, ma agli investimenti a lungo termine. Ti faccio un esempio concreto: abbiamo organizzato un forum sulla cyber sicurezza e lo abbiamo aperto a tutti. Questo è quello che tutte le grandi aziende dovrebbero fare».

Oltre ad essere alla direzione del Casinò di Lugano sei presidente dell’Ente Ospedaliero ticinese…

«Sì, ho questa fortuna, dico fortuna perché la presidenza all’EOC è stata una cosa eccezionale. In questo caso posso dire di essere arrivato all’Ente Ospedaliero per caso. Nella lottizzazione politica quella era l’unica poltrona di prestigio venuta libera a cui la Lega poteva ambire. Cosa è successo dopo? Ho incontrato un’azienda eccezionale, con personale formato e volenteroso. Abbiamo attraversato un momento storico incredibile, drammatico, il Covid ha cambiato la vita di tutti noi, ma non potete immaginare quanto abbia cambiato le dinamiche all’interno degli ospedali, se ci penso mi vengono i brividi. Ma l’essere sopravvissuti, insieme, i vari progetti legati all’ospedale, mi danno un’energia che trasformo in voglia di fare, di lavorare, di battermi per avere al più presto un ospedale universitario in Ticino».

Un tema sensibile quello di un nuovo ospedale universitario in Svizzera, per il Ticino significherebbe realizzare il sogno di molti medici…

«Non si riesce a far tutto bene subito. Nel mio percorso lavorativo ho dovuto scontrarmi con molte persone, l’importante è non lasciare perdere, battersi per i propri ideali, le proprie convinzioni, ma solo se queste rispecchiano un bene per la società. Tornando all’ospedale universitario il Ticino necessita un modello suo, non un modello fotocopia, inoltre il problema risiede nei soldi, perché i fondi legati alla ricerca sono sempre gli stessi e se nasce un nuovo ospedale gli altri perderebbero una parte di entrate. Ne è la dimostrazione la facoltà di biomedicina che subito, dalla nascita, ha portato dei disequilibri oltre San Gottardo, sempre per i soldi».

Tu sei luganese, hai vissuto la tua infanzia qui, ricordo che una volta parlavi di un ristorante…

«È corretto, la mia famiglia aveva un ristorante, prima in Via Balestra, poi alla Resega, dove sono cresciuto, e dove i miei genitori sono rimasti fino al 1981, quando mio papà è deceduto. Ricordo ancora che apriva alle 5.30 del mattino per gli operai del comune, i pompieri e la polizia, una volta erano tutti lì. Lavoravamo tantissimo, mezzogiorno e sera, non parliamone quando c’erano le partite di hockey. Pensa, siamo quattro fratelli, e nessuno, ma dico nessuno, ha mai pensato di lavorare nella ristorazione (ride). Anche perché abbiamo sempre aiutato i nostri genitori. Sai perché ancora oggi mangio velocissimo? Perché quando rientravo da scuola dovevo mangiare al volo e poi andare a servire».

Hai fatto l’apprendistato in banca, ma la tua vita professionale ti ha regalato tanti viaggi…

«Ero un curioso, non ho mai avuto paura di viaggiare. Dopo l’apprendistato sono andato a Monaco di Baviera per il tedesco e poi ho lavorato a Francoforte. In quello stesso periodo il mio docente di contabilità mi aveva contattato per diventare contabile federale e allora sono tornato a studiare. Sono comunque rimasto nel settore bancario, mi sono spostato a Parigi per collaborare ad un progetto legato alla contabilità analitica, quella che fino ad allora era utilizzata nelle grandi aziende. Poi, per sperimentare quello che era ancora solo teoria, mi hanno mandato a New York e per finire ho vissuto anche alle Isole Cayman, dove sono stato chiamato per rilanciare una banca».

Ma scusa con tutti questi viaggi dove hai trovato il tempo di conoscere tua moglie?

«Lei praticamente c’è sempre stata. Eravamo adolescenti quando ci siamo incontrati. Ricordo ancora che, quando sono arrivato a casa da mia mamma e le ho raccontato che sarei partito per le Isole Cayman, lei mi ha detto… e la Fabiola? Cosa pensi di fare…? Ci siamo sposati (sorride) e lei mi ha raggiunto ai Caraibi. Pensa che inizialmente non voleva venire e poi non voleva più andarsene. La nostra prima figlia è comunque nata qui, perchè volevamo che nascesse in Svizzera. La sorellina è arrivata quando eravamo già a Lugano».

Non penso sia stato facile rientrare a Lugano…

«Avevamo le nostre famiglie, perciò a livello privato è stato bello, ma a livello professionale mi sono subito reso conto che mi mancavano delle competenze e quindi, continuando come analista, ho ricominciato a studiare. In quel periodo ho conosciuto due ingegneri forestali con i quali ho fondato alcune società forestali. Vedi nulla succede per caso (sorride)».

E nel tuo poco tempo libero cosa fai?

«Famiglia, corro – anzi mi trascino – per liberarmi la mente e mi interesso alla viticoltura. Mi piace cercare piccole produzioni, conoscerne la storia, le persone che ci lavorano, la loro passione e poi i loro prodotti. Sono quasi più interessato all’aspetto umano che a quello vinicolo».

Ti voglio fare un’ultima domanda, ma il Ticino sta andando nella giusta direzione, penso a livello politico, economico, umano…

«Assolutamente no, non siamo capaci a fare squadra, questo è il problema. C’è sempre una scusa, c’è sempre un’invidia di fondo… non siamo capaci ad andare d’accordo, a costruire qualcosa assieme, per il bene di tutti».

Ma è cosi? Gli interessi personali sono sempre al primo posto? La vera risposta dobbiamo darla a noi stessi.