Mons. Grampa, Lei è stato per lungo tempo alla guida della Diocesi di Lugano, riuscendo a conoscere in profondità e comprendere la vita della popolazione ticinese. Ora che può guardare la realtà con maggiore distacco quali sono i più importanti problemi di carattere materiale e spirituale che affliggono gli abitanti del cantone?

«Non poi così a lungo: dieci anni corrispondono a poco più di due legislature quindi, non so se ho potuto conoscere in profondità e comprendere bene la vita religiosa del Ticino. Ci ho provato, visitando più volte tutte le comunità della diocesi con la visita pastorale per parrocchie e sono 255, per vicariati e sono sei e per zone che allora erano 19. Dopo ogni visita ne riferivo nel Giornale del Popolo, così da ricavare quattro volumi dedicati alla visita pastorale. Ho colto quello che mi pare essere il tratto caratteristico del nostro momento storico: stiamo passando da un’epoca di cambiamenti a un cambiamento d’epoca. Uno studio recente lo riassume così: l’arrivo di nuovi paradigmi di pensiero; l’imporsi del dominio della tecnica; lo sviluppo delle conoscenze in ambito medico e farmaceutico; il boom economico con tutti i problemi di equilibrio, di giustizia, di investimento che comporta; l’arrivo del digitale. Tutto questo porta al rapido diffondersi di una cultura “ossessivamente” centrata sulla sovranità dell’uomo rispetto alla realtà, tanto da parlare addirittura di “egolatria”, ossia di un vero e proprio culto dell’io.

Papa Francesco utilizza un neologismo spagnolo particolarmente efficace “rapidacion” (rapidizzazione) per indicare la continua accelerazione dei cambiamenti. E un teologo dice che siamo rapidissimamente passati dall’essere in una “valle di lacrime”, alla pianura lussureggiante di quel benessere fisico, economico, psichico che contraddistingue l’attuale condizione di vita del nostro tempo. Ma è proprio così? Siamo davvero in un “paradiso in terra”?».

Nel corso della sua presenza nella Diocesi di Lugano è stato protagonista di polemiche anche accese. Quanto le manca tutto questo e come trascorre oggi il suo tempo un Vescovo emerito?

«Papa Francesco ci rende attenti che non siamo più in regime di cristianità: la fede specialmente in Europa “non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene persino negata, derisa, emarginata, ridicolizzata”. Anche papa Benedetto scrisse: “Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, …oggi non sembra più essere così in grandi settori della società”. Non siamo più in un regime di cristianità! Il che non vuol dire che dobbiamo rinunciare a proclamare il Vangelo, ma occorre prendere atto della totale divaricazione tra istruzioni per vivere e istruzioni per credere. Viviamo una rottura nella trasmissione generazionale della fede, che viene marginalizzata, quando non addirittura derisa. Serve dunque una chiesa diversa. Come potrà essere? Cosa vuol dire: Chiesa Sinodale? Quanto spazio fare ancora alle donne? Quale il rapporto fra centro e periferia?

A me non è che manchi qualcosa. Vivo diversamente il mio episcopato: leggo, parlo, scrivo, prego, seguo con attenzione ed interesse la vita della Chiesa, rifletto, ripenso, medito, a chi me lo chiede offro i servizi che posso e soffro in silenzio. La figura del Vescovo emerito deve essere ancora precisata meglio».

Entrando nel merito di una questione fondamentale, come giudica il processo di abbandono dei valori cristiani che sembra essere uno dei fenomeni irreversibili della nostra società contemporanea?

«Scrive don Armando Matteo, un attento osservatore del contesto sociale contemporaneo: “Serve, in concreto, un modo nuovo di immaginare il cristianesimo e un connesso nuovo agire pastorale che possano fare finalmente fronte al cambiamento d’epoca e al declino della cristianità” per il quale offre alcune raccomandazioni di metodo. Quando tutto è importante, nulla è importante. Occorre prendere l’iniziativa e divenire Chiesa in uscita, che non è una cosa facile e priva di rischi. Rimuovere l’ostinata ripetizione: “che si è sempre fatto così!” Prevedere una nuova organizzazione e presenza delle comunità cristiane sul territorio.

“È follia immaginare di ottenere risultati differenti, mettendo all’opera sempre le stesse cose” (Rita Maria Brawn).

Essere convinti che Gesù è anche la verità sull’uomo stesso. Il termine pastorale deriva da “pastore” e quest’ultimo da “pasto”: il pastore è colui che si occupa del cibo delle sue greggi, quindi che rischiara anche la verità sull’uomo stesso, insistendo sulla gioia del Vangelo, che trasmette la rivelazione del nome di Dio come nome di Misericordia ed il compimento di ogni esistenza umana come compimento nell’amore».

Un’adesione forte e convinta al Cristianesimo rappresenta la necessaria premessa anche per un dialogo interreligioso. Qual è a suo giudizio lo stato dei rapporti con le altre religioni, in particolare con l’Islam, in riferimento soprattutto alla situazione della Svizzera e del Ticino?

«Non facile. Non bisogna essere ingenui, pur senza rinunciare ad una pastorale dell’amicizia. Papa Francesco ha scritto una lettera pastorale “Fratelli tutti” sulla vocazione di tutti alla fraternità e all’amicizia sociale. Questo è l’impegno dei cristiani, ma il raggiungimento di questo traguardo di amicizia sociale, di dialogo interreligioso, non è di facile conquista da entrambe le parti. Ci sono troppi pregiudizi, troppe presunzioni. L’accettazione dell’altro, del diverso, richiede formazione, cultura, educazione, buona volontà, leggi giuste, rispetto reciproco, volontà positiva. Mi pare che nonostante tutto in Svizzera e Ticino, da noi, i rapporti siano “civili”, nonostante qualche estremismo intransigente e non giustificato».

In un sistema della comunicazione e dell’informazione dominato dai social media e dalle nuove tecnologie, che spazio ritiene che possa ancora esserci per una stampa di matrice cattolica?

«Intanto mi dispiace molto che sia stato chiuso il Giornale del Popolo che è stato un importante mezzo di comunicazione, ma anche di formazione dei cattolici nel Ticino. Sono sorte comunicazioni digitali, qualcuna molto apprezzata, ma purtroppo per intanto di scarsa diffusione. Vorrei rispondere di sì, che può esserci spazio per una stampa di matrice cattolica, in forme nuove, con scadenze più ariose, che mantengano vivo il dialogo, il confronto, l’informazione e la formazione tra i cattolici, tra i cristiani, tra chi si dimostra sensibile ai temi religiosi».

Approfittando della sua capacità di guardare alle vicende del mondo quale ritiene debba essere il ruolo della Chiesa di fronte alle guerre, alle crisi e alle tensioni internazionali che sconvolgono la società contemporanea?

«Di non stancarsi mai di essere al servizio della pace, della giustizia, della libertà, della difesa del creato, della famiglia, dell’educazione, del rispetto della natura e dell’arte, dell’attenzione ai poveri, ai malati, alle categorie più fragili, all’impegno sociale della Chiesa. Di essere presenti nel vivo dei problemi da affrontare: di lasciarsi coinvolgere, di saper offrire il contributo d’arte, di cultura, di esperienza secolare della Chiesa. Di non dimenticare mai che Gesù è via, verità e vita, quindi di restargli fedeli nella libertà e nella fedeltà di una visione “dinamica”, non statica della vita, della verità, della via».