Marco D’Anna, quando e come ha scoperto la sua passione per la fotografia e c’è un’esperienza specifica che l’ha spinto ad intraprendere questo percorso?

«Avevo sedici anni quando iniziai l’apprendistato al Giornale del Popolo di Lugano. Mi mandavano spesso a fotografare i gabbiani sul lungolago per imparare a mettere a fuoco i soggetti in movimento: non cera ancora l’autofocus.

Quell’esperienza mi aprì gli occhi: quelle presenze leggere e fluttuanti mi fecero intuire che, grazie a quel lavoro, tutta la mia vita avrebbe potuto essere libera. Dopo la scuola aprii subito il mio primo atelier e da allora sono sempre stato indipendente e felice della mia scelta».

Quali sono stati i passaggi fondamentali della sua formazione nel campo della fotografia?

«Ho sempre cercato collaborazioni anche al di fuori del Ticino, inizialmente a Zurigo e Milano, e poi sempre più lontano. Volevo capire se il mio lavoro fosse valido,  quelle piazze non concedono compromessi.

Da giovanissimo ho collaborato con i grandi editori d’arte Franco Maria Ricci, Umberto Allemandi, La fondazione San Paolo a Torino e molti altri. Poi per 14 anni ho viaggiato in giro per il mondo seguendo le  tracce del personaggio creato da Hugo Pratt, Corto Maltese. È stata un’esperienza libera e molto formativa dal punto di vista fotografico e umano». 

Come descriverebbe il suo stile fotografico e ci sono influenze particolari che hanno plasmato il suo approccio a questa forma d’arte?

«Sono innamorato della fotografia: ho una passione sfrenata, ci metto il cuore ed è per me una necessità interiore che continua a crescere nonostante il passare del tempo.
Ho realizzato libri insieme a grandi fotografi, come René Burri, Gianni Berengo Gardin e Mario De Biasi. Questi incontri mi hanno profondamente influenzato.
Lavoro molto su progetti personali di ricerca, che poi diventano mostre fotografiche, libri e talvolta finiscono per entrare a far parte delle collezioni di musei, fondazioni e collezionisti  privati. Questa è una parte importante e fondamentale  del mio lavoro dove posso sperimentare e realizzare tutto quello che per me è importante».

Qual è la sua visione sulla fotografia e in cosa ritiene che possa distinguersi rispetto ad altre forme artistiche?

«Il mio lavoro e la mia esperienza sono al servizio degli altri, di chi desidera condividere con me un pezzettino di strada. Spesso mi chiedono di immaginare e proporre delle idee: ascolto le loro richieste e poi cerco di trovare ciò che piacerebbe anche a me realizzare. In questo modo, quando porto a termine un progetto, lo sento davvero mio.

Questo approccio si è sempre rivelato vincente, perché ci metto tutto il tempo, l’impegno e l’amore necessari. I clienti lo percepiscono, e poi lo vedono concretamente nei risultati. Ho sempre avuto carta bianca». 

Ci sono progetti o idee future che la entusiasmano particolarmente e quali temi o argomenti vorrebbe esplorare nelle sue prossime opere?

«In un mondo smaterializzato, dove tutto sembra uguale, cerco di restituire un’anima alle aziende che attraverso la fotografia, vogliono comunicare la propria identità: attraverso il  lavoro dell’uomo  ciò che producono e ciò che li distingue. Realizzo progetti per clienti istituzionali, industrie, banche, fondazioni e a volte anche per privati».

Quali sono alcune delle sue più importanti realizzazioni e c’è un progetto, una mostra o un’esposizione a cui si sente particolarmente legato?

«Ho fotografato per grandi aziende: dalla Fiat a Torino a uno dei maggiori produttori di tessili al mondo la Lantal Textile. Ho curato l’immagine ufficiale della Svizzera per L’Expo di Milano del 2015, realizzando un lavoro sulle principali aziende agroalimentari del nostro Paese. Ho inoltre documentato una delle più grandi acciaierie della Russia, le miniere di carbone in Siberia e molto altro ancora. Ho realizzato una settantina di esposizioni, quelle in Cina e a Parigi le ricordo come traguardi particolarmente  importanti per il mio percorso».

Come il Ticino ha influenzato il suo lavoro fotografico e ci sono aspetti del paesaggio o della cultura locale che l’hanno particolarmente ispirato?

«Il Ticino è il mio porto sicuro, il luogo a cui torno dopo i miei viaggi in giro per il mondo. Qui ci sono le mie radici, i miei affetti e il mio atelier. È una terra bellissima e raccolta, che però ti obbliga ad allargare lo sguardo sul mondo per trovare il tuo posto, così come hanno fatto, in passato, generazioni di persone e di artisti ticinesi».

Un suo recente impegno riguarda un progetto in collaborazione con Societé Generale. Di che cosa si tratta e quali sarà la sua futura evoluzione?

«Per i 160 anni dalla fondazione della banca, a Parigi mi è stato chiesto di immaginare un progetto fotografico. È stato il lavoro ufficiale per celebrare quell’anniversario. Ho proposto di ritrarre i loro clienti nel mondo: così è nato il progetto Impossible Possible. In sintesi, la banca rende possibile ciò che sembra impossibile, sostenendo e accompagnando gli imprenditori nella realizzazione dei loro sogni e dei loro progetti.

Nel libro non compaiono soltanto grandi clienti come Blackstone a New York, il CEO di Hyundai in Corea o i grandi imprenditori in Cina, Africa ed Europa. Attraverso le fondazioni che sostiene, la banca permette anche a giovani svantaggiati di studiare, imparare la musica e costruire il proprio futuro. È stato un lavoro molto importante, che mi ha impegnato per diversi mesi in giro per il mondo». 

Da ultimo, che consiglio darebbe ai giovani che desiderano intraprendere una carriera in ambito fotografico e quali ritiene siano le qualità e competenze indispensabili per avere successo in questo campo?

«Essere curiosi è un segno di intelligenza. Metterci sempre il cuore e la passione, e non smettere mai di confrontarsi con il mondo al di là dei nostri confini».