È caldissimo. Arrivo negli uffici di Via Vegezzi a Lugano puntuale, salgo al quinto piano. Nella sala d’attesa tutte le postazioni sono divise da un plexiglas, mi siedo. Grassi arriva sorridente, rilassato, chiede un caffè espresso. Ha un tono calmo e cordiale…

«Sono nato a Vacallo nel 1966, sposato con Barbara, che ho conosciuto all’età di 15 anni durante il primo corso di Gioventù e Sport di Bellinzona, sì…sono un momò e mi sento legato al Mendrisiotto, anche se in questo momento vivo a Bellinzona. La mia era una famiglia tranquilla e io ero un bambino, un ragazzo, cui piaceva studiare e di conseguenza andavo bene a scuola».

In poche parole un ragazzo modello…

«No, no, avevo anch’io il mio lato ribelle, ero critico nelle discussioni e visto che a casa mia si poteva sempre parlare di tutto, le nostre serate erano animate. Penso sia normale visto il distacco generazionale e il fatto che difficilmente i figli hanno le stesse idee degli adulti, e noi genitori lo sappiamo bene».

E poi c’era lo sport, una fetta importante della sua gioventù passata nel rinomato Vacallo…

(Ride). «Ho sempre fatto dello sport, prima atletica con le staffette di paese, poi pallacanestro. Ma parlare di basket oggi è facile… ai miei tempi era un po’ diverso anche perché quando i miei compagni ed io – eravamo in quattro – ci siamo lanciati nel basket, il Vacallo non aveva ancora un movimento giovanile, quindi il primo movimento giovanile è nato proprio con noi. Ricordo quel periodo con grande felicità, eravamo tutti molto uniti, quando ci spostavamo per le partite ci sostenevano decine di persone tra famigliari e amici, contrariamente gli avversari avevano le loro panchine vuote. C’era così tanto entusiasmo che ad un certo punto il movimento giovanile contava 150 ragazzi».

E non ha mai sognato di diventare uno sportivo?

«No, ma neanche di lavorare in banca. Io avevo – e ho tutt’oggi – la passione per i motori, i motorini, qualsiasi cosa che contiene un motore».

Quindi truccava anche i motorini?

(Sonora risata). «Diciamo che li smontavo e riparavo».

Quindi pensava all’ingegneria…

«Sinceramente volevo fare il meccanico di automobili o moto, ma poi mio padre mi disse: “Sì, sì, comincia a fare la Commercio e poi fai quello che vuoi”. Voleva che prima prendessi un diploma, anche perché in quegli anni non era così facile “switchare”, eravamo più incanalati e meno flessibili rispetto ai giovani d’oggi».

Quindi – un po’ a malincuore – studi commerciali?

«Esatto. Sono andato alla Commercio di Chiasso, erano gli anni ’80, quando le banche erano sempre alla ricerca di persone e praticamente all’ultimo anno, gli allievi migliori, già a febbraio si ritrovavano in mano un’offerta lavorativa. Di conseguenza chi usciva dalla Commercio aveva un posto di lavoro e questo i nostri genitori lo sapevano bene (sorride)».

Immagino che andando bene a scuola le offerte non siano mancate…

«Ne avevo ricevute tre, una l’ho scartata perché veniva dalla banca in cui lavorava mio padre, scartai pure la seconda e scelsi quella di Credit Suisse a Chiasso dove iniziai a 18 anni. Esattamente come oggi i nuovi impiegati avevano la possibilità di lavorare in diversi settori. Ho iniziato nel Trade Finance, dove tutto era complicatissimo per noi neodiplomati. A quell’età nessuno sapeva esattamente cosa si faceva in banca. Io avevo solo sentito da mio nonno: “Vai in banca che ci sono i soldi!”, perché vedeva i cassieri che contavano i soldi, ma una vera idea di quello che si faceva io non l’avevo. Per questo l’inizio è stato impegnativo. Come seconda tappa ho fatto il settore Investigation, in poche parole quando un pagamento andava male bisognava risalire all’errore; poi ho fatto sei mesi di contabilità, la sera mi ritrovavo a trascrivere a macchina le operazioni bancarie (una trentina rispetto alla miriade di oggi) e naturalmente le entrate e le uscite dovevano pareggiare se si voleva andare a casa».

Tre settori, tre esperienze, che peró non l’avevano ancora convinta completamente…

«Osservavo, imparavo e alla fine mi hanno dato la possibilità di iniziare nel settore commerciale perché desideravo lavorare con le aziende. Poi, dopo circa un anno mezzo, sono partito all’estero, a Zurigo (divertito), andando dapprima in Germania per imparare il tedesco. Sono stato via cinque anni tra lavoro e militare».

L’impressione è che non si è mai seduto, sempre pronto alle novità, a fare qualcosa, a intraprendere una nuova strada…

«Sarà il mio carattere, ma quando avevo 25 anni, ed ero a Zurigo, volevo proseguire gli studi. Essendo interessato alle aziende non volevo un diploma di impiegato federale o contabile federale, volevo fare un’esperienza universitaria che mi permettesse, volendo, di andare a dirigere anche un’azienda. Senza farlo apposta chiamo i miei colleghi di Chiasso e scopro che in quel momento un consulente con un portafoglio clienti aveva dato le dimissioni e loro cercavano qualcuno che si occupasse dei clienti e che, parallelamente, iniziasse quella che oggi è la SUPSI, una formazione parauniversitaria. Non mi sembrava vero, in più il mio doveva essere un ruolo sperimentale visto che in azienda nessuno l’aveva fatto prima».

Lei è molto affezionato a Credit Suisse, una carriera trentennale con una breve pausa in Raffaisen per poi tornare ai vertici…

«Sono stato chiamato e sono stato contento di essere stato chiamato, perché era l’ultimo scalino che mi mancava. Ero da un anno e mezzo in Raiffeisen (un anno alla direzione) andava tutto bene però dentro di me era rimasto il fatto che mi mancava l’ultimo gradino di Credit Suisse, ma allora non c’erano le condizioni, per questo avevo accettato l’offerta di Raiffeisen. Poi però mi sono trovato in Paradeplatz…con un’offerta che era quello che, in fondo a me, desideravo».

Quindi ha subito accettato?

«No, no. Ricordo che sono tornato a casa da mia moglie e le ho detto: “Adesso cosa faccio?”. E poi ho parlato anche con un mio amico, che é anche il mio coach, e lui mi ha risposto: “In fondo hai già deciso, perché me lo chiedi?”.  Effettivamente era così, ma avevo bisogno che qualcun altro me lo dicesse».

Lei ha vissuto una vita in banca, è passato dalle assunzioni sfrenate ai continui tagli…

«È un’evoluzione costante, il trend lo conosciamo, ma non dimentichiamo che dove c’è un rischio c’è un’opportunità, lo abbiamo visto anche ora con il Covid. Prima della pandemia parlare di home office sembrava impensabile, poi siamo stati costretti a farlo e abbiamo trovato delle opportunità prima inimmaginabili. Ci siamo resi conto che tante volte facciamo chilometri in auto, stiamo in giro nel traffico, per una discussione che con uno Skype meeting di cinque minuti riusciamo a risolvere con molta più facilità ed efficienza. Abbiamo visto che con questo lockdown si sono sviluppate attività che prima non c’erano, penso alle numerose offerte di consegna a domicilio dei pasti, oppure anche all’e-commerce, io stesso mi sono ritrovato ad acquistare online. Lo stesso vale per i posti di lavoro, magari non ci sono più determinate attività, ma ne nascono delle altre legate al cambiamento e all’evoluzione».

Ma per chi teme di essere licenziato?

«Una vera paura di perdere il posto di lavoro io non l’ho riscontrata in nessuno…».

Forse hanno paura di dirlo…

«Io penso di essere una persona abbastanza aperta, accetto qualsiasi critica o discussione, infatti parlo parecchio non solo con i responsabili, ma con tutti i collaboratori. Di fondo il problema dove sta? Ognuno di noi deve mantenere la propria impiegabilità. Se tu pensi di entrare in una banca, non fare un corso di aggiornamento, non fare niente e restare lì trent’anni… allora sicuramente prima o poi avrai un problema. Ma se tu curi la tua impiegabilità, fai dei corsi, impari le lingue… tu sei un valore per la banca e soprattutto sei un valore per te stesso perché se domani non vuoi più stare in banca avrai altre possibilità fuori, magari in un’altra banca o in un’azienda».

Quindi non dovremmo avere paura di perdere il posto, ma di non essere compatibili al mercato…

«Una persona ha un valore suo che non deve essere legato unicamente al mondo bancario. Se uno cura il suo valore e sa qual è il suo valore, non deve avere nessun timore di perdere il proprio posto di lavoro».

Secondo lei il mondo politico dovrebbe far qualcosa di più, penso a piani fiscali per far arrivare più aziende o più famiglie facoltose…

«Penso che noi, come banche, dobbiamo fare il nostro lavoro al meglio e il politico dovrebbe fare lo stesso nell’interesse del Paese. Poi che tutto sia migliorabile e che siano stati fatti degli errori fa parte del gioco ed è pur vero che la popolazione invecchia e sono due anni che abbiamo più decessi che nascite. Questo è il trend e c’è poco da fare, naturalmente dal mondo politico ci si aspetta una svolta, un qualcosa, che possa ridare slancio all’economia locale, ne abbiamo tutti bisogno».

Lei ha una figlia di undici anni, un valore che vuole trasmetterle…

«Per me è fondamentale l’onestà e la sincerità nel rapporto con gli altri e con la famiglia. Le ho detto che può fare tutto ma deve sempre dirlo, senza raccontare bugie. Per me la trasparenza è un valore molto importante».

Ma questo vale anche nella vita lavorativa, l’essere sincero non può giocarci contro?

«Magari in qualche momento ci sembra che il dire tutta la verità sia controproducente, ma alla fine paga sempre, anche perché per parlare con la gente devi essere trasparente e sempre te stesso».

Per questo non è più in politica (scherzoso)?

«Devo dire che durante i miei cinque anni sono stato molto bene, ho conosciuto molta gente, ma sono stati un dispendio di tempo folle rispetto al risultato che ho ottenuto. Io sono una persona a volte schiva, a volte cordiale, ma dico sempre quello che penso e me ne assumo le conseguenze».

Come vede il suo futuro, i suoi sogni…

«Famiglia a parte… tornerò con i motori. Adoro le vecchie Alfa Romeo, forse perché è stata la mia prima auto, avevo 18 anni e per acquistarla avevo prosciugato tutti i miei averi. Ora ho un amico che ne ha una collezione importante e qualche volta siamo andati a fare dei giretti. Il mio sogno dunque sarebbe acquistarne una. Ma non ho finito… mio papà mi ha appena regalato il suo vecchio motorino, lo aveva comprato quando io avevo acquistato il mio a 14 anni, e quindi ho deciso di ripararlo e chissà magari mi ritroverete in una piccola officina tra motorini d’epoca».

Coltivare i propri sogni, le proprie passioni e non dimenticarsene mai.