Il suo nome si lega a due marchi prestigiosi rispettivamente nel mondo dell’orologeria (Cuervo y Sobrinos) e di recente in quello della gioielleria (Marzio Milano). Quali sono state nella sua vita di creativo e di imprenditore le tappe che l’hanno portata a raggiungere questo successo?

«In verità da giovane studiavo legge (mi sarebbe piaciuto fare il penalista) quando ho incominciato a lavorare, un po’ per sfida personale, con la Società distributrice di orologeria Binda che aveva bisogno di qualcuno che si occupasse della loro marca Breil: avevo messo un termine alla mia collaborazione, volevo tornare agli studi, ma in sei mesi ho raggiunto un target altissimo e quando ho voluto andarmene, la Direzione con Carlo Crocco, che conoscevo dai tempi della scuola, mi convinse a restare nella sua azienda. Quel mondo mi affascinava e ben presto si è presentata la grande occasione che ha segnato la prima parte della mia vita: proprio in quel periodo era nata, infatti, la marca Hublot e nel giro di pochi anni mi sono trovato ad essere alla guida di mercati di primaria importanza come l’Italia, la Spagna, il Portogallo e tutta l’America latina. È stata un’esperienza importantissima che mi ha dato grandi soddisfazioni, perché posso dire di avere contribuito in modo decisivo all’affermazione di quel marchio in tutto il mondo».

La società di distribuzione di orologeria da lei fondata, Diarsa è diventata un leader indiscusso del settore…

«Diarsa ha iniziato la sua attività nel 1982, distribuendo in esclusiva in Spagna e in Portogallo l’azienda svizzera di alta orologeria Hublot. Nei successivi 25 anni, gli  eccellenti risultati ottenuti sul mercato iberico ci hanno consentito di ottenere un grande riconoscimento internazionale. Abbiamo così ampliato l’offerta e avviato la distribuzione di altre importanti aziende internazionali. Oggi Diarsa, che ha la sua sede a Madrid e un ufficio a Lisbona, gestisce la distribuzione di sei aziende di alta orologeria e gioielleria: Hublot, Cuervo y Sobrinos, Eberhard & Co, Porsche Design, Baume & Mercier e Damiani».

A proposito di Cuervo Y Sobrinos, essa rappresenta senza dubbio una delle sue grandi scommesse vincenti. Come è nata questa sfida?

«Le racconterò una storia. La Habana di fine 19esimo secolo era la capitale della bella vita, la “perla dei Caraibi”. Attori, politici, avventurieri. Erano tempi in cui andare sull’isola di Cuba era un viaggio vero, e dove si restava per mesi, non un solo weekend. La tradizione vuole che nel 1882 don Ramon Cuervo riunisse a tavola i suoi nipoti (appunto, i suoi sobrinos) e proponesse loro di aprire nel cuore della città una boutique di gioielli e orologi che incarnasse lo stile di vita dell’epoca. L’impresa ebbe successo e per lungo tempo quegli orologi rappresentarono un autentico oggetto di culto e di desiderio. Fino a che nel 1957 la svolta politica di Fidel Castro spazzò via i lustrini della città e con quelli il marchio Cuervo y Sobrinos che nel frattempo era già diventato una potenza».

E lei come decise di rilevarlo?

«Sognavo da sempre l’opportunità di lanciare un nuovo marchio. Intorno al 2000 su un giornale trovai un’offerta di vendita di quattro orologi in oro Cuervo y Sobrinos d´epoca e la possibilità di rilevarne il marchio acquistandoli. In un momento storico in cui il vintage tornava a dettar legge nella moda, mi sembrò poter essere un’operazione al passo coi tempi. Così partii per Cuba con in valigia tutti i libri su La  Habana anni Trenta. Volevo vedere da vicino cosa era rimasto del vecchio negozio e cosa poter costruire su quelle fondamenta. La grande boutique era diventata un deposito in cui la gente buttava le cose dalla strada. Ma lì ho iniziato il mio progetto: ho fatto ripulire tutto, le colonne in marmo, quattro stupende casseforti, alcune pareti con boiserie. Nell’interrato del negozio, ho rinvenuto anche il «libro de oro» con le fotografie di Hemingway, Caruso, Clark Gable, Winston, Churchill e Einstein, tutti clienti fedelissimi della boutique. Dopo trattative lunghissime, ho ottenuto di far rivivere in La Habana una boutique vicino a una veccia sede della Marca e, in un anno e mezzo, sono riuscito a creare una rete internazionale per rilanciare quell’immaginario che mi aveva sempre affascinato. I primi modelli sono stati prodotti nel 2004».

Di questo progetto lei è stato l’anima imprenditoriale ma anche lo spirito creativo…

«Negli orologi Cuervo y Sobrinos non ho voluto cambiare né la filosofia né l’estetica: l’anima di questi orologi è rimasta il ritorno nostalgico ai tempi in cui la gente aveva gusto, viveva per la bellezza delle cose. Sulle radici di La Habana che fu, ho ridato credibilità a una marca che fa ancora sognare e tutti ricordano con piacere. Ho mantenuto lo stile e riprodotto i vecchi meccanismi per alcune edizioni limitate. E questo intento è stato capito nel mondo. Paradossalmente tutti i paesi dimostrano come sia internazionale la filosofia del lusso di Cuervo y Sobrinos, specialmente l’America e il Giappone e la Spagna con la loro identità. Ovviamente la Spagna, vanta una tradizione latina nei confronti di quel marchio, ma il Giappone è un caso interessante perché la Marca propone uno stile di vita e di gusto molto affine a questo paese cosi legato alle tradizioni e ai dettagli.
Il problema è comunicare il concetto a tutti i diversi intermediari. Lo spiego all’importatore, che poi deve spiegarlo al rivenditore e il rivenditore deve trasmettere questa filosofia al cliente. Dunque per avere successo c’è sempre molto lavoro da fare».

Perché ha deciso di vendere questa sua creazione cui era così tanto legato…

«Cuervo y Sobrinos era un marchio che dipendeva completamente da me, dal design alla produzione, alla distribuzione, ecc. Ho raggiunto una certa età e volevo tirare un po’ i remi in barca, concentrando i miei sforzi su Diarsa e su un altro progetto che mi stimolava, quindi ho ritenuto che la soluzione migliore sarebbe stata trasferire la direzione di Cuervo y Sobrinos a un’altra società perfettamente in grado di promuovere il marchio come merita».

Il suo desiderio di rimanere sempre attivo e creativo l’ha portato tuttavia a dare subito vita ad un nuovo progetto…

«Seguendo il mio istinto imprenditoriale, ho deciso, come ho detto, di intraprendere un progetto più personale: il desiderio di lanciare una linea di gioielli, Marzio Milano, come omaggio alla mia città natale e alla cultura che ne emerge. Questa è la mia settima azienda, creata nel mio camino professionale. È un Brand con una propria immagine che unisce tradizione e voglia di innovare, dove ogni pezzo diventa un gioiello unico, è un design classico reinventato con l’artigianato moderno che trasmette emozioni e sensualità. Gioielli italiani di alta qualità».

Che cos’è per lei il lusso?

«Il lusso e una attitudine appagante nella vita di ciascuno, declinata nella sensibilità  personale. Nell’orologeria il lusso, confuso a volte con la ostentazione,  è un settore limitato a quei grandi marchi che offrono un concetto forte solitamente accompagnato da un grande investimento in pubblicità. Oggi tuttavia l’acquirente ha più informazioni, sa perfettamente cosa vuole acquistare e richiede anche altri tipi di prodotti e servizi indipendentemente dal loro prezzo. In fondo, il lusso è un fatto soprattutto culturale. Uno dei visitatori più famosi a Cuba è stato Ernest Hemingway. Non seguiva il lusso come lo pensiamo oggi, ad esempio indossando abiti firmati, ma aveva sicuramente una sua filosofia del lusso».

Per concludere, quali sono le grandi passioni che hanno accompagnato sempre la sua vita?

«Al primo posto metto senz’altro il lavoro al quale ho dedicato molte energie e risorse, anche materiali; ma sempre senza soffrirlo come un sacrificio; poi l’amore per le auto d’epoca, che, partecipando a corse ed eventi, mi ha portato addirittura ad organizzare per alcuni anni la Coppa Cuervo y Sobrinos ancora oggi ricordata con simpatia nel settore dei Gentlemen Drivers e collezionisti. C’è poi la musica: da ragazzo ho fatto il cabaret milanese, cantavo, suonavo alcuni strumenti, soprattutto la chitarra; e poi la gastronomia che identifico assolutamente con quella della tradizione. Non faccio cucina da “impiattare”, faccio cucina “da palato”».