È purtroppo venuta a mancare Viviana Kasam, filantropa e grande mecenate.
Tutta la redazione di Ticino Welcome e in particolare Elisa Bortoluzzi Dubach, che le è stata grande amica, esprime le più sentite condoglianze ai famigliari e lo fa attraverso questa intervista, che Viviana ci ha regalato qualche anno fa e che ne ricorda il lato più umano, colto e generoso
Dottoressa Viviana Kasam, vuole raccontarci le tappe salienti della sua vita?
«Sono giornalista professionista, per trent’anni ho lavorato al Corriere della Sera, collaborando alle principali testate del gruppo RCS, e alla Rai. Sono molto attiva nei settori delle neuroscienze e della musica e da sempre impegnata nella filantropia».
Come nasce questa sua passione?
«Sono nata in una famiglia ebrea, molto attiva in questo settore. Per tutta la vita ho ritenuto che l’impegno personale sia in forma di impegno filantropico che di volontariato fossero valore irrinunciabili della mia esistenza».
Quali particolari caratteristiche presenta la filantropia d’ispirazione ebraica?
«La filantropia ha un ruolo fondamentale nella cultura, nell’etica e nella tradizione ebraica. Da noi si chiama tzedaqà, e ha la stessa radice della parola tzedek, la giustizia divina, e di zaddiq, il giusto. Questo è un concetto fondamentale, che distingue la filantropia ebraica da quella cattolica: rientra nell’ordine della giustizia, dell’etica, e non in quello della carità, ovvero della bontà. Aiutare i poveri non è un gesto discrezionale, è un preciso dovere sociale e religioso, codificato. E come chi dispone di mezzi ha il dovere di dare, l’indigente ha il diritto di esigere, e di protestare se questo diritto non viene rispettato: l’umorismo ebraico è ricco di storielle che raccontano di medicanti che protestano perché ritengono che l’elemosina elargita sia inferiore al dovuto.
Nel Talmud, che è la summa delle interpretazioni della Torah, la tzedaqà viene meticolasamente regolamentata. La prima regola è che non deve mai ledere la dignità di chi riceve. E poi non riguarda solo i ricchi: ognuno deve contribuire nei limiti delle sue possibilità, anche il povero, e l’ammontare “equo” è fissato tra un minimo del 10% e un massimo del 20% (forse i saggi ritenevano che di più fosse equivalente a scialacquare e privare i propri eredi di ciò che loro spetta). Ed è considerata tzedaqà anche la cessione di beni immateriali, come per esempio il proprio tempo o il proprio lavoro. Inoltre, i rabbini ammoniscono che si deve stare molto attenti a come offrire denaro per tzedaqà. Non è sufficiente donarlo a chiunque o ad una qualsiasi organizzazione, piuttosto si devono controllare le relative credenziali e finanze per essere certi che il denaro venga usato saggiamente, efficientemente ed efficacemente: “Non derubare il povero, perché è povero” (Proverbi 22:22).
Il Talmud insegna che il denaro “non era tuo per cominciare, mentre invece appartiene sempre a Dio, che solo te lo affida cosicché tu possa usarlo appropriatamente. Pertanto è tuo obbligo assicurarti che venga distribuito saggiamente”.
Maimonide, il sommo studioso e saggio elenca otto gradi di tzedaqà:
1. Il livello più basso è quello di chi dà, ma con rammarico
2. Un pochino superiore è il livello chi dà meno del dovuto, ma lo fa con buon viso
3. Poi c’è il dare quando si è richiesti
4. Più meritorio il dare prima che arrivi la richiesta
5. Poi c’è il dare senza sapere a chi si dà: il povero però sa da chi riceve
6. Il dare anonimamente, sapendo però a chi si dà è il sesto livello
7. Il settimo è il dare anonimamente senza sapere chi riceverà la beneficenza: bisogna però che la donazione passi attraverso una persona onesta e di comprovata fiducia: guai a scialacquare la tzedaqà.
8. Infine il livello più alto è quello di chi non si limita a dare, ma prende per mano un povero e lo mette in grado di guadagnarsi la vita in modo che non debba più chiedere».
Che peso ha avuto la sua famiglia nella sua scelta di impegnarsi nella filantropia?
«Nella mia famiglia i precetti della tzedaqà erano strettamente osservati. Mio padre ci raccontava che sua madre ogni venerdì acquistava due polli, uno per sé e uno da dare ai poveri (e allora il pollo era un cibo di lusso); che a Pasqua e a Purim si invitava a cena un indigente. E, pur essendo un uomo molto parsimonioso con se stesso, era generosissimo quando si trattava di aiutare gli altri. Secondo le regole talmudiche».
Com’è nata la Cukier – Goldstein – Goren Foundation?
«La Cukier-Goldstein-Goren Foundation è stata istituita nel 1972 sotto diritto israeliano. Lo scopo statutario prevede il sostegno di progetti negli ambiti della formazione, cultura, salute e social welfare. Fino ad ora la fondazione è stata attiva a Lugano, Tel Aviv, Be’er Sheva, Dimona, Ra’anana, Milano, Bucarest e New-York. Del Consiglio di Fondazione facciamo parte io e i miei fratelli,
L’idea di mio padre, che lo spinse a creare una Fondazione, era quella di non aiutare singoli individui, ma di creare istituzioni che avrebbero messo in grado molte persone di migliorare la qualità della propria vita, attraverso l’istruzione, il contesto sociale , il superamento di handicap fisici e psicologici. Istituzioni che dovevano nascere in collaborazione con enti pubblici, per garantirne e il mantenimento nel tempo.
Papà ha creato università, centri di formazione per handicappati, istituti per insegnare la lingua agli immigrati, centri sportivi in periferie degradate per dare ai giovani luoghi di aggregazione e svago, e centri universitari per lo studio dell’ebraismo, perché era convinto che la cultura, l’etica, la filosofia, la religione ebraica contengono insegnamenti che è necessario far conoscere anche ai non ebrei. In questa direzione, la Fondazione di famiglia, di cui uno di noi fratelli a turno ha la presidenza per quattro anni, sta cercando di creare a Lugano, in collaborazione con l’USI, un centro di Judaica, grazie all’impegno della presidente di turno, mia sorella Micaela Goren Monti».
Nel 2010 lei ha fondato l’Associazione BrainCircleItalia. Come nasce la sua passione per le neuroscienze?
«Il mio lavoro di volontariato si esplica in due settori molto diversi tra loro, ma che rispecchiano interessi che mi hanno accompagnato tutta la vita. Il primo è la ricerca sul cervello. Una decina di anni fa sono stata letteralmente fulminata dall’incontro con un gruppo di neuroscienziati dell’Università ebraica di Gerusalemme, che raccontavano con linguaggio divulgativo le loro ricerche più avanzate a un gruppo internazionale di filantropi che sostenevano il loro centro. Mi dissi che tutti dovrebbero essere messi a conoscenza di questi temi, perché riguardano la nostra vita quotidiana, il nostro modo di essere, il nostro futuro. Allora di neuroscienze in Italia si parlava pochissimo, e più che altro fra addetti ai lavori. Un amico ricercatore, Piero Calissano, mi mise in contatto con Rita Levi Montalcini, di cui è stato il più stretto collaboratore per quarant’anni. Insieme nacqua BrainCircleItalia, una piccola associazione creata con l’obiettivo di divulgare le neuroscienze, di mettere in contatti studiosi italiani e stranieri, di portare in Italia le eccellenze del settore. Grazie al prestigio della scienziata, il nostro primo Brainforum “Le nuove frontiere della ricerca sul cervello” riuscì a mettere insieme alcuni fra i massimi neuroscienziati al mondo e a ricevere una straordinaria attenzione dai media. Da allora ho realizzati moltissimi convegni, seminari, conferenze, tutti gratuiti grazie a sponsor che ci sostengono: la gratuità è la cifra di tutto ciò che faccio, perché la scienza deve essere accessibile a tutti: al Festival Cervello&Cinema, che ho organizzato l’anno scorso a Milano, e replicherà dal 9 al 13 aprile 2018, frequentatori abituali erano anche due clochard! Chi vuole saperne di più, può visitare il nostro sito, www.brainforum.it, dove sono descritti tutti gli eventi, e ci sono anche gli streaming delle conferenze».
Lei è anche governatore di un’università?
«Sì nel 2009 sono stata nominata Governatore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, sul Monte Scopus, la più antica università israeliana, fondato da Albert Einstein, Sigmund Freud, Martin Buber e Chaim Weizmann».
Parliamo della sua passione per la musica?
«L’altro campo in cui sono attiva è la musica, perché è portatrice di un linguaggio universale e di emozioni immediatamente condivisibili. E poi perché mi piace…
Il primo grande evento musicale che ho realizzato risale al 1998. Si chiamava Festa della Musica, e lo feci per il Comune di Milano (lavoro quasi sempre con istituzioni pubbliche). Ero partita, insieme a un amico, Paolo Pasini, che allora lavorava in Assolombarda, con l’idea di fare un progetto di integrazione delle comunità etniche presenti sul territorio. Gli immigrati poveri sono considerati (ma loro stessi spesso si considerano) cittadini di serie B. Come farli sentire orgogliosi della loro tradizione e ammirati? Quasi sempre le comunità hanno grandi tradizioni musicali. Pensammo che mettere su un palco musicisti provenienti dai loro Paesi d’origine, molti dei quali star riconosciute internazionalmente, avrebbe creato un senso di appartenenza e di orgoglio, e aiutato il dialogo con i milanesi. Per cinque anni abbiamo organizzato in una settimana nel mese di giugno fra i 100 e i 200 concerti in tutta la città, in collaborazione con tutte le istituzioni presenti sul territorio: dalla Scala, al Piccolo Teatro, all’Auditorium, al Conservatorio.
La festa della Musica durò cinque anni ma l’idea di utilizzare la musica per portare avanti un progetto etico mi è rimasta dentro. E così, quando conobbi Amnon Weinstein, un liutaio israeliano che restaura violini sopravvissuti alla Shoah, per restituire loro la voce che i nazisti vollero annientare, capii che il suo poteva essere un messaggio potente, che andava fatto conoscere. Mi colpì l’idea che nell’orrore estremo dei campi di concentramento i prigionieri avessero ancora il desiderio, e la forza di creare bellezza, di credere nell’arte come consolazione, come evasione ma anche come mezzo di sopravvivenza spirituale. L’esperienza mi ha insegnato che quando un progetto ha valore etico trova la sua strada per realizzarsi. In questo caso fu Renzo Gattegna, allora presidente del’UCEI, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, a farsene paladino e proporla alla Presidenza del Consiglio come l’evento istituzionale per il Giorno della Memoria. I Vioini della Speranza, ripreso in diretta dalla Rai, alla presenza della massime autorità italiane, fu un successo strepitoso. Ma per me il vero successo fu la possibilità di venire a conoscenza di questa pagina poco nota della Shoah, e di coinvolgere musicisti di tutte le religioni in un messaggio di pace e di speranza».
Insomma, la musica come linguaggio unificante per creare fratellanza…lo stesso concetto della Festa della Musica, questa volta però applicato a un tema ancora più tragico.
«L’organizzazione di quel concerto (ma definirlo concerto è limitativo, perché raccontammo anche le vicende dei violini e dei musicisti che li avevano posseduti e suonati,) fu talmente complessa che giurai che non l’avrei mai più replicata. E invece, pochi giorni dopo, un produttore cinematografico, Marco Visalberghi, mi contattò per chiedermi di aiutarlo a divulgare la storia di Francesco Lotoro, un musicista che da trent’anni si dedica alla ricerca delle musiche scritte nei campi di concentramento (da raccolto 20.000 tra spartiti, documenti, diari, registrazioni). Una ricchezza musicale straordinaria, che senza di lui sarebbe andata perduta. Impossibile dire di no. Nacque così il secondo concerto per la memoria, “Tutto ciò che mi resta”, forse ancora più commovente del primo. Da allora il viaggio nella memoria musicale della Shoah è continuato (www.memoriainscena.it) e prossimamente porteremo a Lugano un bellissimo spettacolo “Serata Colorata”, che andrà in scena il 26 aprile al LAC (I biglietti sono già in vendita in teatro o sul sito www.luganolac.ch».
Può anticiparci di cosa si tratterà?
«È la storia del campo di concentramento di Ferramonti (la narra Peppe Servillo), uno dei 48 campi istituiti da Mussolini in Italia, dove c’era una vita musicale brillante e scoppiettante di allegria, forse per dimenticare l’orrore dell’internamento, che ricreiamo sul palcoscenico grazie una band di solisti jazz straordinaria, (c’è anche Fabrizio Bosso, il più noto solista di tromba in Italia) e alla voce di Cristina Zavalloni, giovane star della musica contemporanea.
Serata Colorata fa parte di un progetto di tre mesi sviluppato con Moreno Bernasconi, presidente della Fondazione Spitzer (www.fondazionespitzer.ch), e con la Città di Lugano, per ricordare il ruolo storico del Ticino nell’accoglienza dei perseguitati (con le leggi razziali promulgate in Italia 80 anni fa ci fu un momento apicale di richieste) e per onorare quattro Giusti ticinesi che avranno un Giardino a loro dedicato nel Parco Ciani. Il Giardino dei Giusti è realizzato in collaborazione con Gabriele Nissim, presidente dell’Associazione Gariwo, che promuove in tutto il mondo il ricordo di chi si prodiga per aiutare i perseguitati.
Sono progetti che richiedono impegno e anche un rischio economico. Non sempre troviamo gli sponsor per coprire i costi e spesso oltre al lavoro devo anche sovvenzionare personalmente l’associazione, perché non abbiamo un sostegno economico assicurato.
Qual è la molla che la spinge ad intraprendere tante importanti iniziative?
«La risposta che mi viene naturale è il senso di necessità etica. Sento che lo devo fare. E poi c’è la soddisfazione di realizzare progetti in cui credo, che hanno per me un significato importante. Se posso trasmettere un messaggio è che bisogna liberarsi dal metro di giudizio economico, che purtroppo oggi è l’unico ritenuto significativo, e, quando si può, misurare ciò che facciamo su altri parametri. Hannah Arendt, una delle intellettuali che più amo, ha coniato l’espressione: la banalità del male. Io aggiungo: la felicità del bene. Provare per credere. E se qualcuno volesse sostenere la nostra attività, può associarsi o fare una donazione direttamente sul sito: www.braincircleitalia.it. Ogni contributo, anche piccolo, sarà di aiuto e incentivo per noi».