Un’ex fabbrica di camicie trasformata in un openspace e un appartamento all’americana, una cucina da invidiare e un grande tavolo capace di ospitare cene con numerosi amici. Il tutto arricchito da un’energia contagiosa, quadri africani dai mille colori e libri di architettura sparsi un po’ ovunque…
Capisco che lavori sempre, in un uno spazio così chi non lo farebbe? Sembra veramente di essere in una grande metropoli, come ad esempio a Milano, città che tu ami molto…
«Sì, sono un uomo e un professionista fortunato. Ho da sempre lavorato in modo indipendente, portando avanti le mie idee e le mie convinzioni. Sono capitato in questo stabile per caso, quindici anni fa, quando stavo cercando un ufficio un po’ più grande. Pensa che questa era un vecchia fabbrica di camicie. Ho iniziato affittandola fino ad arrivare ad acquistarla e ne ho fatto anche la mia casa, un po’ come capita in America, con spazi destinati alla vita personale e a quella lavorativa, come sognavo».
E la tua cucina? So che ti piace molto organizzare cene con amici e che naturalmente hai la passione per l’enogastronomia, ma cucini anche?
«Non proprio… (ridiamo), diciamo che mi piace invitare amici che sanno cucinare, io però mi impegno nella scelta dei vini (soddisfatto)».
Ci sono molte statue, quadri e oggetti d’arte: una collezione che non nasce certo in pochi giorni…
«Sono sempre stato appassionato d’arte, ma più che del valore mi innamoro della storia dell’artista: queste (mi indica due grandi statue in legno) le ho ricevute per aver ospitato un amico scultore. I quadri (tele molto grandi e colorate) arrivano da Santo Domingo e sono fatte da un artista che ho conosciuto durante un viaggio. Devo essere onesto: l’arte di un certo livello mi piace, ma costa troppo».
Prima dell’intervista ho chiesto a un paio di amici comuni di raccontarmi di te, ma alla fine nessuno conosce veramente il tuo passato…
«Sono nato a Zurigo, mia mamma era di Belluno e mio papà del Canton Glarona. Quando avevo due anni mio padre è venuto in Ticino: si è trovato così bene che, nel giro di pochi mesi, ha trasferito qui tutta la famiglia. Di lui ricordo solo il viso e che possedeva un negozio di elettrodomestici. Purtroppo è morto quando avevo solo dici anni».
Tua mamma, rimasta sola, durante i periodi estivi ti mandava in vacanza dai parenti in Veneto. Una terra alla quale tu sei ancora molto affezionato…
«È lì che mi sono formato il carattere. Eravamo degli “scavezzacollo” per così dire. Con gli amici si partiva il mattino e il primo scopo della giornata era quello di trovare qualcosa da mangiare. Ci arrampicavamo sulle piante da frutto e andavamo a pescare: la passione della pesca è nata proprio in quel periodo e mi accompagna ancora dopo tanti anni. Insomma, per me il Veneto ha sempre significato una vita all’insegna della libertà. Ho imparato ad adattarmi, a pensare prima di agire; nel bosco basta una mossa falsa per farsi male e, a pensarci bene, nella realtà lavorativa le cose non sono tanto diverse».
Il tuo primo diploma è stato quello di disegnatore, ma dopo le scorribande giovanili, posso immaginare che l’ufficio ti stesse stretto…
«Effettivamente… dopo due anni ho cambiato lavoro. Ho iniziato a vendere abiti, facevo il rappresentante. E’ stato un periodo bellissimo, giravo per tutta la Svizzera, lavoravo intensamente per qualche mese e poi avevo altrettanto tempo libero. Nel frattempo, avendo un passato sportivo (fin da giovane ho giocato a pallacanestro), ho iniziato a dilettarmi sui campi da tennis e per due anni ho anche fatto il monitore. Una professione che mi piaceva molto, ero responsabile dei campi da gioco al Campo Marzio vicino al Lido di Lugano. Quello era un lavoro duro, bisognava alzarsi all’alba per preparare i campi, dare lezioni durante il giorno e la sera eri l’ultimo a chiudere il cancello».
È a questo punto che hai dato una svolta alla tua vita?
«Ho ancora quella scena impressa nella mente. Era mattina, stavo preparando i campi, quando il mio sguardo si è posato su un anziano professore di tennis. In quel momento mi sono reso conto che non ce l’avrei fatta a continuare quella vita per sempre e, con un pizzico di coraggio, ho mollato tutto e ho aperto la mia prima ditta di abbigliamento sportivo. A quell’epoca, parliamo degli anni ‘80, era di moda il windsurf, quindi ho iniziato a vendere materiale tecnico all’avanguardia e colorato, e ho avuto un buon successo».
Sei poi diventato importatore di una grande marca legata all’abbigliamento sportivo. Hai anche prodotto capi per loro, forse non una carriera lampo, i sacrifici ci sono stati, ma sicuramente soddisfacente…
«La mia vita mi piace, tutto quello che è successo ha avuto un suo perché. È anche grazie alla Kappa che oggi sono arrivato qui. Non ho mai calcolato il tempo che ho dedicato al lavoro, non c’era differenza tra una domenica e un lunedì, per me il lavoro è sempre stato tutto, perché l’ho sempre fatto con grande piacere, inoltre mi ha permesso di girare il mondo e conoscere una moltitudine di cucine e di gusti.
So che anche la famiglia è molto importante per te. Quando hai conosciuto tua moglie?
«Eravamo giovanissimi. Stiamo insieme da più di quarant’anni, anche se da fidanzati io vivevo ancora con mia madre. Nonostante abbia sempre lavorato molto, Ebe mi è stata vicina sempre e, ora che sto più tempo a casa, andiamo molto più d’accordo. Col tempo ci si conosce sempre meglio e degli spigoli del carattere si smussano. Di certo sono un uomo a cui porre dei limiti e lei lo ha saputo fare nel modo più giusto. Abbiamo un figlio, che vive a Losanna, dove si è laureato in architettura. Una passione, mi piace pensare, che gli ho trasmesso».
Il tempo passa, le abitudini cambiano, ma l’attenzione nei confronti dell’abbigliamento ti è rimasta. Non conosco molti uomini che usano le bretelle…
«Ormai non le mollo più, mi aiutano a stare comodo dal momento che la cintura dopo certe cene è sempre un po’ troppo stretta (risata simpatica)»
Nel 2009 hai venduto la tua attività principale e oggi ti occupi solo, si fa per dire, della manifestazione enogastronomica per eccellenza in Ticino: S. Pellegrino Sapori Ticino. Insomma, hai trasformato un’altra tua passione in un lavoro vero e proprio…
«Come spesso accade nella vita, le cose capitano per caso. Era un sabato, una giornata bellissima, ed ero al ristorante Sant’Abbondio a Sorengo, allora del mio grande amico Martin Dalsass, che insieme a Dario Ranza, mi ha aiutato molto nello sviluppo della manifestazione. Eravamo quattro amici seduti sul terrazzo e chiacchierando abbiamo iniziato a chiederci perché la gente non andasse più nei ristoranti di un certo livello. In quel preciso momento abbiamo deciso di organizzare qualche serata gourmet. Va detto che dieci anni fa non si parlava ancora di enogastronomia, questo termine è entrato nel linguaggio comune solo qualche anno dopo».
Già durante la seconda edizione avete avuto chef italiani pluristellati e la preziosa sponsorizzazione di S. Pellegrino…
«Basta guardare questa rassegna stampa, è quella dell’anno scorso, della decima edizione. Tradotta in soldi, tutti gli articoli scritti su di noi valgono 1 milione e seicento mila franchi. Sempre più testate giornalistiche, comprese le televisioni, si interessano a noi. Ho da sempre puntato sulla visibilità e ad oggi devo dire che siamo stati ripagati. Dopo anni di lavoro ed esperienza possiamo avere i migliori chef al mondo quasi gratuitamente, Chef che normalmente costano fino a 20mila franchi a serata. E’ vero che da qualche anno abbiamo introdotto un rimborso spese, ma sinceramente non basta neanche per pagare tutto il personale che si portano appresso».
Un piccolo team, mi hai parlato di circa quattro persone, che sono riuscite a dare vita a una rassegna conosciuta a livello mondiale…
«Un grande ringraziamento va ai miei collaboratori, Dina, Carlotta e Marco, senza di loro sarebbe impossibile seguire tutto, ma anche a Grazia Saporiti, la nostra addetta stampa, con cui lavoriamo da molti anni. È stata lei a suggerci di dare un tema ad ogni edizione, così da interessare i cuochi e soprattutto la stampa. Ricordo edizioni bellissime, come quella dedicata unicamente a Chef donne, oppure quella dell’anno scorso con sessanta stelle Michelin. Nel 2016 infatti sono arrivati dieci cuochi con tre stelle Michelin, un’edizione così penso non l’abbia mai avuta nessun altro festival. Quest‘anno invece avremo ospiti gli Chef de Le Soste, un’associazione italiana che raggruppa tutti i migliori ristoranti italiani ed organizzeremo 26 eventi in totale».
Non dev’essere facile gestire personalità del genere in una cucina…
«Devo dire che non abbiamo mai avuto problemi (si ferma un attimo a riflettere). No, non è vero, una sola volta, ma è stata colpa mia: ho messo nella stessa cucina due chef che non si sopportavano molto… fuoco e fiamme! Comunque tutti gli Chef che ho conosciuto, di solito, sono persone molto flessibili, ma soprattutto con noi non si atteggiano mai a superstar, si adattano al nostro stile e restano tutti incantati dalla bellezza del Ticino. Alcuni dei momenti più belli della manifestazione si vivono in cucina, magari alla fine della serata, quando ci si ritrova a mangiare, bere e chiacchierare dopo il servizio. Alla fine la miglior promozione ce la fanno gli Chef stessi quando tornano nei loro Paesi e raccontano cosa è davvero S. Pellegrino Sapori Ticino».
Quando si parla di arte si associa il termine artista a colui che inventa qualcosa di nuovo. Vale lo stesso in cucina?
«Certamente. Bisogna anche dire che gli Chef davvero bravi hanno molte doti, perché il talento non è solo quello di saper cucinare, ma anche una sorta di predisposizione mentale, devono saper affrontare grandi sfide. Le soddisfazioni sono molte, ma la loro vita è dura, lavorano quando noi mangiamo, si svegliano prestissimo e, pensando agli chef patron, chef proprietari, tutto è sulle loro spalle. Stiamo parlando di cifre d’affari importanti per i locali più conosciuti al mondo».
Tu conoscevi Benoît Violier, uno degli Chef più celebri al mondo purtroppo morto suicida, aveva il successo, la popolarità che tutti sognano eppure…
«Lui era davvero straordinario, positivo, sempre sorridente, il suo gesto ha lasciato tutti sbalorditi. Penso che fosse arrivato al punto dove tutto era “troppo”… il suo ristorante faceva fatturati incredibili ed era ai vertici nel mondo della gastronomia, probabilmente ha avuto un crollo psicologico nel momento sbagliato».
Torniamo in Ticino, anche noi abbiamo ottimi cuochi e ottimi vini, so che tu sei un grande appassionato…
«Effettivamente nella mia cantina ho molti vini ticinesi e credo che alcuni siano davvero degni di essere conosciuti in tutto il mondo. Basterebbe fare una degustazione alla cieca per dimostrarlo! Per quanto riguarda i cuochi e i ristoranti ticinesi, dal mio punto di vista siamo veramente su ottimi livelli».
Tema sempre d’attualità: la ristorazione che, legata al turismo, sta attraversando una lunga fase di crisi…
«Nella mia vita lavorativa, come detto, ho avuto spesso occasione di trovarmi lontano da casa e dover mangiare al ristorante (ne ho visitati oltre 1.200 in questi anni). In tutto il mondo, ma soprattutto in Italia, l’enogastronomia è sempre stato il fiore all’occhiello del turismo. In Ticino invece, stiamo pagando anni di gestione senza visione sul futuro, fatta in maniera poco lungimirante e basandosi sempre sugli stessi fattori, senza puntare sulla novità. Abbiamo aspettato troppo per trasformare l’enogastronomia nella molla attrattiva del turismo locale, nonostante siano sempre state disponibili delle grandissime eccellenze. Non dico che tutti i ristoranti debbano puntare ad una stella Michelin, ma lavorare a stretto contatto con i produttori per offrire piatti, anche semplici, di qualità sì. Questo è quello che rimane nella mente di un turista, soprattutto se ad accompagnare un buon pasto sono dei buoni vini ticinesi e i nostri magnifici panorami».
Ma non pensi sia colpa dei prezzi?
«Smettiamola di dire che il Ticino è caro. Ti faccio un esempio: se mangio un buon branzino fresco al ristorante, lo pago tra i cinquanta e i sessanta franchi. Se vai a fare la spesa (io ormai non ci vado da anni, perché avevo il vizio e il piacere, di comprarmi tutto il negozio), ti puoi rendere subito conto che in Ticino il pesce fresco è caro, quindi le tariffe applicate dai ristoranti non sono così fuori dagli schemi. Naturalmente se vai a Ponte Tresa e mangi un branzino d’allevamento lo paghi meno, ma non è la stessa cosa! Se invece mangi un buon branzino, il costo è simile. Dal mio punto di vista il vero problema è che in tutte le istituzioni che si occupano di turismo, raramente trovi degli imprenditori e per questo manchiamo di intraprendenza».
Immagino che malgrado tutto quello che stai organizzando per quest’anno la tua mente sia già proiettata nel futuro…
(Ride) «Certo. Il progetto più importante sarà quello di candidare Lugano a Città del Gusto per il 2018. Sarebbe fantastico se la nostra città venisse scelta ed entrasse a far parte di una delle manifestazioni di enogastronomia più famose e importanti della Svizzera».
Ma come fai ad avere sempre tutta questa energia?
«Sono convinto di una cosa: donare è sempre più bello che ricevere, che si tratti di denaro, tempo, progetti… Io, facendo il mio lavoro, mi ricarico ed è forse per questo che riesco sempre a produrre nuove idee. Come ho detto: se lavori per te stesso, non calcoli mai le ore, quindi sei portato ad avere più esperienze. Devo anche dire che in tutto quello che ho fatto ho sempre messo tanta passione, la stessa passione che devono avere tutti coloro che devono disegnare il futuro del Ticino, soprattutto i giovani, perché il futuro è nelle loro mani».