Marina Carobbio Guscetti, cosa ha provato la prima volta che è entrata nella sala del Consiglio di Stato da consigliera di Stato?
«Innanzitutto una grande emozione. Mi sono resa definitivamente conto che avevo abbandonato un lungo periodo della mia vita per iniziarne un altro, sempre con compiti politici ma diversi rispetto a quelli fino ad allora ricoperti: non più un legislativo ma un esecutivo, membra di un Governo collegiale, un nuovo ruolo rispetto al mio partito… L’auspicio è ovviamente quello di riuscire a contribuire al benessere del mio cantone e dei suoi cittadini, una cosa cui ho sempre tenuto molto».
Come l’hanno accolta i suoi colleghi, tutti maschi?
«Molto bene. Naturalmente li conoscevo già tutti, anche se con alcuni di loro ho avuto più stretti contatti di lavoro che con altri. Siamo evidentemente tutti coscienti che su determinati temi avremo opinioni differenti, ma c’è la volontà di trovare delle soluzioni condivise che vadano nell’interesse del Ticino e della sua popolazione».
L’unica donna in un collegio per lunghi anni unicamente maschile: può fare la differenza?
«Soprattutto porta una visione nuova e differente, che appunto mancava da diverso tempo nella politica ticinese. Ritengo che una democrazia sia veramente completa solo quando sono rappresentati entrambi i sessi. Anche se una su cinque non è una rappresentanza equa (e anche in Gran Consiglio da questo punto di vista c’è stato un arretramento), penso sia importante portare una sensibilità femminile sui temi nell’interesse di tutta la società, in particolare su quelli di genere – disparità salariale, possibilità di carriera, job sharing (cioè condivisione dei posti di responsabilità), conciliabilità tra lavoro e vita privata… – ma non solo. Bisogna pensare a modelli innovativi, e in questo senso il contributo di una donna è importante».
In base alla sua esperienza esiste un approccio femminile alla politica, oppure preponderanti sono le visioni ideologiche dei partiti?
«Le differenze tra i partiti sono importanti; tuttavia vorrei portare l’esempio della mia esperienza al Consiglio degli Stati, dove in questa legislatura non ci sono mai state così tante donne (13 su 46). Ebbene, lavorando tutte assieme, al di là quindi dei rigidi steccati di partito, siamo riusciti a portare avanti dei temi “nostri”, delle rivendicazioni comuni ottenendo anche dei successi, ad esempio sui centri contro la violenza di genere. È stato importante lavorare in rete: penso che senza questo lavoro comune certe cose agli Stati non sarebbero mai passate. L’obiettivo, per me, è sempre quello di raggiungere una società il più possibile paritaria».
Anche su temi non prettamente femminili? O riconducibili in modo più o meno diretto alle donne?
«Secondo me sì; è una questione di vissuto, che per una donna è differente rispetto a quello di un uomo. Possono ovviamente cambiare le soluzioni proposte, come è giusto che sia in una democrazia, ma nell’individuazione del problema e nel suo approccio le sensibilità tra uomini e donne sono differenti. Mi ricordo quando da presidente del Consiglio nazionale interruppi la seduta per permettere ai deputati di partecipare allo sciopero delle donne: fui criticata da destra, ma in piazza scesero le donne di tutti i partiti (e non solo le donne)».
Una vita passata sui banchi del legislativo, adesso inizia una nuova vita in un esecutivo. Come pensa di riuscire a vivere questo cambiamento e questo nuovo ruolo?
«Fatte le debite proporzioni, ho già ricoperto ruoli decisionali in associazioni di vario tipo; anche da presidente del Consiglio nazionale ho comunque dovuto fare delle scelte di tipo operativo. Non credo quindi che mi sarà molto difficile adattarmi anche a questo nuovo ruolo. Vedremo comunque tra qualche mese».
Lei però passa per una politica piuttosto profilata e combattiva; in questo senso in un legislativo è permesso di più rispetto a un esecutivo…
«Probabilmente sì, ma anche da deputata quando è stato necessario ho trovato o mi sono piegata a compromessi nel bene del Paese. Conosco abbastanza bene il sistema politico svizzero per sapere che in certe situazioni bisogna fare delle scelte il più possibile condivise. Soprattutto in momenti difficili ritengo ci voglia un Governo che non ragioni sul singolo dipartimento ma che abbia una visione comune. In questo senso sono disposta a fare la mia parte. Naturalmente ho anche dei principi – come la difesa dei più deboli e delle minoranze, o una società più equa e giusta – che difendo e che continuerò a difendere, ma credo anche che si debba dare delle risposte ai bisogni e alle preoccupazioni della popolazione».
Potrebbe avere delle difficoltà ad uscire a difendere posizioni che non condivide? Le manifesterebbe come ad esempio le manifestava Blocher?
«Penso appunto che possano averle anche colleghi di altri partiti, magari anche più di me, anche se a loro questa domanda non la si pone mai».
Lei ha iniziato a fare politica da giovanissima. Una passione che le viene da papà o una scelta sua?
«È riduttivo riportare tutto a mio papà, perché anche mia mamma era politicamente molto attiva. Era molto meno conosciuta, perché attiva soprattutto nelle associazioni e non nei partiti, ma ha avuto un ruolo per me molto importante. Mi ricordo ad esempio che in casa c’era appeso un foglio in cui si parlava dei costi del lavoro di cura, una cosa che mi aveva molto impressionata. A tavola insomma di politica si parlava non solo con mio padre, ma anche con mia madre (pure mia sorella è impegnata politicamente, sia pure in altri ambiti e non a livello istituzionale). Sono dunque cresciuta in una famiglia politica. E anche in un ambiente politico, dato che molte, ma non solo, delle conoscenze dei miei genitori erano persone della sinistra ticinese. Da studente partecipavo a gruppi di solidarietà con l’America latina, ai movimenti studenteschi e femministi, in seguito a accanto al lavoro associativo c’è stato poi quello istituzionale che negli anni è aumentato».
Una predestinata con una strada forse un po’ spianata…
«Non posso negare che alla mia prima elezione in Gran Consiglio, a 24 anni, ha sicuramente influito il fatto che mi chiamassi Carobbio e che mio padre era consigliere nazionale. Il duro è stato dopo, una volta eletta, quando ho dovuto e voluto dimostrare che non ero solo “la figlia di”, ma che potevo dare io un contributo mio».
Se dovessi citare qualcuno che l’ha influenzata?
«Anna Biscossa, una persona con cui ho lavorato tantissimo quando ero in Ticino e con cui ho una grande amicizia, che continua ancora oggi. Lei era presidente e io capogruppo ed eravamo molto affiatate».
Quand’è che ha deciso di mettere da parte il suo essere medico, la professione che ha scelto, per diventare una politica?
«Quella di medico è una bellissima professione, che mi piace tuttora. Come medico, soprattutto se medico di famiglia, vivi e senti quali sono i problemi della popolazione, non solo la malattia ma anche tutto quello che ci sta attorno (quando una persona ti parla del suo malessere fisico spesso parla anche del resto). Il passaggio da medico a politica è stato graduale. L’accelerazione è avvenuta dopo che sono stata eletta a Berna, dapprima in Consiglio nazionale con le commissioni – prima una, poi due, poi la Delegazione delle Finanze, che è stata molto impegnativa – poi ancor di più al Consiglio degli Stati con ancora più commissioni e responsabilità. Inoltre il sistema politico svizzero fa sì che devi essere presente in diverse associazioni, che spesso anche loro hanno la sede centrale a Berna. Senza dimenticare che per 12 anni sono stata vicepresidente del Partito socialista svizzero. Gradualmente, appunto, qualcosa devi lasciare…».
Mai avuto un rimpianto?
«No: quanto ho imparato nella mia profesione mi è servito anche nell’approccio politico».
Da uno studio medico a un ufficio di palazzo: non le mancherà il contatto diretto con la gente, con i suoi problemi, le sue speranze?
«Io credo che la politica abbia il dovere di non rimanere chiusa nel palazzo, ma di uscire per ascoltare, capire e imparare. Che è quello che ho intenzione di fare, iniziando ovviamente da quelli che sono i temi del mio dipartimento, ossia scuola, cultura, istituzionale e indipendente, e sport (non solo di élite ma anche popolare). Adesso che come membro di un esecutivo non potrò più avere cariche all’interno di associazioni e fondazioni, dovrò trovare un modo per mantenere una presenza nel territorio e costruire un dialogo con le persone».
Sedici anni a Berna e adesso in Ticino, una realtà evidentemente più piccola. Non le fa specie? Non le dà un senso di declassamento?
«Quella di lasciare Berna per candidarmi al Consiglio di Stato non è stata una scelta facile, che ha richiesto molto tempo ma che perciò è stata anche molto meditata. So che i grandi temi, che sono quelli che mi affascinano, vengono trattati e decisi a Berna, un luogo dove penso avrei potuto dare ancora un contributo; d’altra parte ho anche pensato che nel nostro sistema queste decisioni devono poi essere trasposte nella realtà locale e quotidiana, e questo è fatto dai e nei Cantoni. Per di più a livello cantonale si possono avviare dei progetti pilota, delle innovazioni che poi un giorno, magari, troveranno una loro collocazione a livello nazionale».
Sedici anni a Berna in cui comunque si è costruita una fitta rete di contatti…
«E che spero di riuscire a mantenere: non solo con l’amministrazione federale ma anche con i politici – consiglieri federali, parlamentari nazionali e politici di altri cantoni. Il Ticino ha bisogno di avere contatti importanti con Berna e il resto della Svizzera. È chiaro che io lavorerò qui e che le risposte le dovrò dare ai ticinesi, però secondo me questa attenzione federale e sovracantonale è importante».
A livello personale è cambiato qualcosa dopo il 2 aprile?
«Non penso nel contatto con le persone: mi fermavo volentieri a parlare con la gente prima, lo farò anche adesso. Cambierà nel senso che sarò, anzi sono già più presente in Ticino: prima ero praticamente tutte le settimane a Berna o comunque oltre San Gottardo, cosa che mi accorgo ancor di più adesso, nel tempo mi ha fatto anche perdere alcune belle cose».
E in famiglia come hanno preso questo suo ritorno, questa sua maggiore e più costante presenza?
«Con mio marito e i miei figli, ora adulti, abbiamo discusso al ungo delle mie varie tappe politiche, anche della candidatura per il Governo ticinese e penso che saranno contenti di vedermi un po’ più a casa la sera, dal momento che prima pernottavo spesso fuori Cantone.
Nel tempo libero cosa le piace fare?
«Andare in montagna, una cosa che cerco di fare tutte le settimane magari anche solo per poche ore, e leggere. Non solo documenti ufficiali e rapporti, ovviamente, ma anche romanzi e saggi. Adesso per esempio sto leggendo Il grande sogno di Almudena Grandes».