Beat Jans, di famiglia operaia, perito agrario di formazione, ingegnere del Poli, professore universitario e infine consigliere federale. Chi è in realtà Beat Jans?

«Sono questo e molto altro: ho una moglie meravigliosa, sono padre, figlio, per hobby suono la batteria, amo la musica, sono tifoso di calcio e basilese. In Consiglio federale rappresento la Svizzera urbana, ma conosco anche la Svizzera rurale. Sono ancora capace di pulire una stalla. La mia vasta esperienza mi aiuta a prendere decisioni nell’interesse dell’intero Paese e per il bene di tutti».

Tra tutte le attività pubbliche che ha svolto nella sua vita, è riuscito a coltivare qualcosa di privato, che può dire sia solo suo?

«Da quando sono Consigliere federale, l’interesse del pubblico nei miei confronti è ulteriormente aumentato. Ma come tutti ho anche una vita privata, che mi dona equilibrio. Anche se ho poco tempo, per me è molto importante continuare a dedicarmi alle mie passioni: partecipo a manifestazioni culturali, ogni tanto vado allo stadio, cucino e passo del tempo a casa con le mie figlie e mia moglie. Mi godo anche le cene con gli amici e le passeggiate con il nostro cane».

In un’intervista lei ha dichiarato di avere sempre davanti agli occhi sua madre, di umili origini, quando parla. “Se lei mi dice che non ha capito, allora ho sbagliato qualcosa”. Viene rimproverato spesso?

«Sì, vengo spesso criticato, ma non mi dà fastidio. Rientra nella mia funzione ed è parte del gioco. E la politica in materia di asilo è particolarmente controversa, non solo in Svizzera. Ricevo però anche molti riscontri positivi dalla popolazione, il che mi fa molto piacere. Molte delle misure che abbiamo preso lo scorso anno hanno effetti positivi e sono un grande stimolo per il mio lavoro al DFGP e in Consiglio federale».

Un “contadino” che proviene da un grande centro urbano: una contraddizione irrisolvibile o la sintesi di quello che è la Svizzera?

«È la sintesi della Svizzera. Da uno Stato agricolo siamo divenuti un moderno centro urbano per la ricerca, l’industria e i servizi – senza dimenticare o rinunciare del tutto alle nostre radici e alla nostra storia. Incarno il mondo rurale e quello cittadino, che non sono affatto in contraddizione tra loro. Anche i ricercatori devono mangiare».

Lei è nato e cresciuto al confine tra Francia e Germania. Che rapporto ha con chi sta dall’altra parte?

«Gli scambi al crocevia fra tre Stati sono da sempre intensi e per chi vive a Basilea è normale superare i confini nazionali. Nella mia precedente funzione di presidente del Consiglio di Stato ho spesso incontrato i rappresentanti ufficiali del Baden-Württemberg e dell’Alsazia. La vita quotidiana nella regione di Basilea si svolge a cavallo tra i confini, indipendentemente dal Paese in cui si risiede».

La frontiera è un limite o un’opportunità?

«Da quando la Svizzera fa parte dello Spazio Schengen, a Basilea la frontiera è poco percepita. Gli stretti legami con l’UE e i nostri Paesi vicini sono un’opportunità per Basilea e la Svizzera intera. Per questo motivo, il Consiglio federale si impegna a stabilizzare e sviluppare le nostre relazioni con l’UE».

Ad eccezione degli italofoni sempre meno svizzeri parlano le altre lingue nazionali, per cui per comunicare tra loro usano l’inglese. La preoccupa?

«La lingua è strettamente connessa con la cultura. Chi studia un’altra lingua, apprende anche nuova musica, nuove usanze, nuova letteratura e un nuovo modo di pensare. Quando due Svizzeri parlano tra loro in inglese, perdono l’opportunità di capirsi nella cultura della propria regione linguistica nazionale. Sicuramente qualcosa va perso. Infatti la coesione della Svizzera si basa sulla volontà di un’appartenenza comune, anche al di là delle barriere linguistiche».

La squadra di calcio del Basilea gioca con i colori rossoblù, quelli della bandiera ticinese. I due estremi geografici della Confederazione quali altre similitudini hanno?

«I due semicantoni di Basilea e il Ticino essendo Cantoni di frontiera offrono molti posti di lavoro a frontalieri e sono strettamente connessi con i Paesi vicini. Sono entrambe regioni periferiche ed entrambi hanno l’impressione di essere talora poco considerati dal resto della Svizzera. Perciò è una buona cosa che attualmente in Consiglio federale vi siano due persone, Ignazio Cassis ed io, che rappresentano lo specifico punto di vista di questa Svizzera».

Quali differenze?

«In Ticino, l’hockey su ghiaccio, il cibo e il vino sono migliori. Dal punto di vista politico ho l’impressione che a Basilea sia dia maggiore importanza alle opportunità offerte dall’apertura all’Europa. Basilea ha tratto enormi vantaggi dalle buone relazioni con i Paesi vicini, sulle quali molti ticinesi sono apparentemente più critici. Ho l’impressione che in Ticino la paura del dumping salariale sia più forte. Perciò è ancora più importante rafforzare la protezione dei salari». 

Lei ha definito il suo approccio all’immigrazione “umanista ma pragmatico”, attirandosi le critiche sia dalla destra che dalla sinistra. La politica d’asilo è davvero nel caos come la si dipinge?

«Da molti mesi constatiamo una riduzione del numero delle domande d’asilo. Quindi quest’anno chiudiamo diversi centri federali d’asilo. Il numero di casi pendenti diminuisce e con un certo ritardo ne risulterà uno sgravio tangibile anche per i Cantoni e i Comuni. Malgrado le sfide da affrontare, Confederazione, Cantoni e Comuni hanno il controllo della situazione. Per essere meglio preparati alle crisi future, lavoriamo insieme alla nuova strategia globale per l’asilo. Nei centri federali d’asilo abbiamo investito nella sicurezza e nell’assistenza ai richiedenti l’asilo e nel contempo imponiamo il ritorno delle persone che non hanno diritto di risiedere in Svizzera». 

Si è detto favorevole ad esternalizzare i procedimenti d’asilo fuori dalla Confederazione. Sul modello di Italia e Gran Bretagna o con altre modalità?

«Come ho detto stiamo esaminando tutte le possibilità. È un mandato del Parlamento. Non escludo a priori nessuna possibilità, a condizione che rispetti i diritti dell’uomo. L’esempio dell’Italia e della Gran Bretagna mostra tuttavia che tali progetti sono difficili da attuare dai punti di vista giuridico e pratico».

La Svizzera e l’economia hanno bisogno di manodopera qualificata, dunque della libera circolazione delle persone; popolazione e sindacati temono dumping salariale e sostituzione di manodopera. Come si risolve questo dilemma?

«Questo tema ci occupa fin dalla prima votazione sulla libera circolazione delle persone. Allora come oggi la risposta consiste nel rafforzare la protezione salariale in Svizzera. A tal fine è pertanto molto importante l’intesa raggiunta dai sindacati e dalle associazioni dei datori di lavoro su 13 misure. Il Consiglio federale ha inoltre deciso un’altra misura. È infatti chiaro anche per il Consiglio federale che la Svizzera vuole contrastare il dumping salariale».

Lei ha dichiarato in un discorso all’Associazione degli editori che i media sono essenziali per il funzionamento della democrazia, ma il buon giornalismo costa. A suo avviso la politica dovrebbe intervenire di più in loro aiuto?

«Il 30 aprile 2025, il Consiglio federale ha adottato il messaggio sui diritti di protezione affini, secondo cui in futuro i grandi fornitori di servizi online devono versare un compenso alle imprese mediatiche per l’utilizzo di estratti di pubblicazioni (snippet). Si tratta di una compensazione per una prestazione giornalistica e non di un sussidio. Il pacchetto di misure per la promozione dei media è invece stato rifiutato in votazione popolare tre anni fa. È quindi dubbio che la popolazione voglia che siano versati sussidi supplementari ai media. È tuttavia chiaro che media di buona qualità, liberi e indipendenti rivestono una grande importanza per la democrazia e la coesione della Svizzera».