BersetSegretario Berset, Locarno ha rappresentato storicamente un momento chiave. Qual è la sua lezione?

«La lezione di Locarno è la generosità e il coraggio. Il coraggio di sedersi al tavolo con i nemici di ieri, di riconoscerli come interlocutori e non più come avversari. Pensiamo alla Prima guerra mondiale: solo sette anni dopo quel disastro, gli stessi paesi si ritrovano per costruire un’idea europea. È un atto di grande coraggio e di grande generosità. Persone che si odiavano riescono a trovare empatia e a lavorare insieme per l’interesse comune del continente. Questo spirito innovativo e generoso fu forse troppo forte per i tempi, ma resta un modello. Anche se il contesto politico non ne ha garantito la durata, lo spirito di Locarno continua a essere un esempio. Locarno non è solo un capitolo della storia svizzera: è un esempio di creatività e di dialogo che ha influenzato tutto il continente. Anche nel campo delle arti e del pensiero, questa regione era allora tra le più vitali d’Europa. È un’eredità di cui possiamo essere orgogliosi».

Lei ha parlato molto di democrazia e delle pressioni che subisce in molti paesi. Questo riguarda anche la Svizzera, oppure il nostro paese ne è immune?

«Riguarda tutti. È il consolidamento di opinioni che nascono da gruppi, da collettivi. Negli ultimi dieci anni abbiamo visto un ruolo enorme dei social network, della disinformazione, dei “bot” e dell’intelligenza artificiale che manipola tutto questo. Tutti i Paesi ne sono toccati, anche la Svizzera. Certo, grazie alla forte decentralizzazione e alla democrazia diretta siamo un po’ più immuni rispetto ad altri, ma il fenomeno esiste anche da noi. Viviamo una crisi della democrazia, dello Stato di diritto, una crisi che provoca danni ma apre anche possibilità di progresso».

Quindi la democrazia è in una fase difficile ma non senza speranza?

«Esatto. È come nel calcio: ci sono momenti di attacco, in cui si avanza e si segna, e momenti di difesa, in cui bisogna resistere. La differenza è che nella società queste fasi non durano minuti ma decenni. Oggi siamo forse in una fase difensiva, ma da qui possono nascere opportunità. L’attuale situazione, ad esempio, ha portato a una maggiore unità politica europea e a una maggiore consapevolezza della necessità di guardare a noi stessi come continente. Sono segnali positivi. Negativi invece sono il regresso dei diritti e i rischi per la democrazia. Se non agiamo, questa tendenza è pericolosa. Dobbiamo trasformarla in qualcosa di costruttivo».

 Quali strumenti servono per difendere la democrazia?

«Dobbiamo metterci d’accordo su regole comuni per contrastare la disinformazione, proteggere il lavoro dei giornalisti e garantire la diversità dei media e delle opinioni. Senza pluralismo non c’è democrazia. Il Consiglio d’Europa può svolgere un ruolo concreto: stabilire regole condivise per la moderazione dei social network, per ciò che è accettabile nel dibattito pubblico, per tutelare la qualità dell’informazione. Oggi, nei paesi come Moldavia, Romania o Polonia, ogni Stato affronta da solo ondate di interferenze durante le elezioni. Servono strumenti comuni. Al Consiglio d’Europa si discute di una convenzione che raccolga questi strumenti condivisi per proteggere la democrazia e lo Stato di diritto in tutta Europa».

La Svizzera ha un rapporto complesso con l’Europa, soprattutto con l’Unione Europea. La sua prospettiva è cambiata da quando è segretario generale del Consiglio d’Europa?

«Direi che l’ha arricchita. Il ruolo della Svizzera in Europa è impressionante. Basti pensare al XX secolo: la conferenza di Locarno, la Società delle Nazioni a Ginevra, l’ONU a Ginevra, il discorso di Churchill sul futuro dell’Europa pronunciato a Zurigo nel 1949. L’idea europea nasce anche in Svizzera, da Denis de Rougemont, da Jean Monnet, con archivi a Losanna. Siamo al cuore dell’Europa, anche se spesso lo dimentichiamo».

Molti confondono il Consiglio d’Europa con l’Unione Europea. Qual è la differenza?

«È vero, c’è spesso confusione. Il Consiglio d’Europa è un’organizzazione più ampia, con 46 Paesi membri. È nata dallo spirito di Locarno e dalla volontà di riunire vincitori e vinti dopo la guerra, come partner di dialogo. Anche il simbolo dell’Europa – la bandiera blu con le stelle – è nato qui, e poi è stato adottato anche dall’Unione Europea».

Che rapporto ha la Svizzera con il Consiglio d’Europa?

«La Svizzera è membro del Consiglio d’Europa da più di 60 anni, pienamente impegnata nelle sue istituzioni. È un progetto basato su valori – democrazia, Stato di diritto, diritti umani – profondamente svizzeri. Non c’è nulla di più svizzero del Consiglio d’Europa».

E con l’Unione europea?

«L’Unione Europea è un progetto politico, ma anche quello è essenziale per la stabilità del continente. E se ci sono tensioni, è normale. L’importante è non essere ingenui: i nostri partner più affidabili sono quelli vicini. Lo dimostra anche la recente vicenda dei dazi con gli Stati Uniti. La geografia non cambia: la Svizzera è nel cuore dell’Europa e lo resterà».

Tra i problemi europei, non solo svizzeri, vi è quello della migrazione. Recentemente ci sono state critiche verso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Qual è la sua posizione?

«Nove paesi, tra cui Belgio, Italia e Danimarca, hanno chiesto di rivedere alcune decisioni della Corte. La mia prima reazione è stata di cautela: mettere sotto pressione o politicizzare un potere giudiziario non è una buona idea».

Ma è aperto a un dibattito?

«Assolutamente. La Corte non è caduta dal cielo: è stata creata dagli Stati membri, insieme al Consiglio d’Europa e alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo proprio per migliorare e convergere. Il mio ruolo è difendere la sua indipendenza e i processi politici. Se ci deve essere una discussione politica sulla migrazione, va fatta, ma in modo strutturato e rispettoso».

Quali difficoltà prevede?

«La complessità sta nel fatto che i casi di migrazione variano da paese a paese. Una discussione con la Danimarca non riguarda che in parte i casi italiani o olandesi. È facile partire parlando di migrazione e ritrovarsi a discutere di altro».

Come pensa di affrontare questa complessità?

«Ho proposto una discussione molto strutturata all’interno del Consiglio d’Europa. Belgio, Italia, Danimarca e gli altri 43 paesi membri devono sedersi insieme, definire cosa funziona e cosa va cambiato e avviare un dibattito produttivo. Io sarò solo un facilitatore, il servitore civile dei paesi membri.

Per concludere: lei è il primo svizzero a dirigere il Consiglio d’Europa. Cosa intende quando dice che “l’Europa avrebbe bisogno di un po’ più di svizzeri”?

(Ride) «È un modo per dire che possiamo portare qualcosa di utile: il senso del dialogo, la moderazione, la capacità di costruire consenso anche tra opinioni diverse. In Svizzera ci sembra normale, ma altrove stupisce. E poi la democrazia diretta: quel continuo dialogo tra popolo e istituzioni che, pur con i suoi contrasti, crea fiducia e creatività politica. In fondo, è questo che serve oggi anche all’Europa».