Per il mio appuntamento con il Direttore Gabriele Corte, arrivo all’entrata di Banca del Ceresio. Non ho mai avuto l’opportunità di salire le scale della torre che, in passato, ospitava l’antenna del telegrafo delle Poste.
Avete molta fortuna ad avere gli uffici in un monumento storico nel centro di Lugano, ci si dimentica troppo spesso delle ricchezze presenti in città…
«Ormai siamo qui da cinque anni, quindi in un certo senso subentra l’abitudine, ma ricordo ancora lo stupore della prima volta…una bella emozione. Come può vedere gli spazi rispecchiano molto il nostro spirito da “club”, capace di offrire un ambiente riservato quando serve, ma aperto all’occorrenza per creare sinergie».
Un’eleganza che desidera creare un’atmosfera accogliente, famigliare, come le origini della banca legate alla famiglia fondatrice: i Foglia.
«Sì, inutile negarlo, l’impronta della famiglia azionista è giustamente ben evidente. La Banca è stata fondata in Svizzera nel 1958 dai fratelli Alberto e Giambattista Foglia, fu però loro padre a iniziare l’attività finanziaria a Milano, nel primo Novecento. L’esigenza nacque per necessità famigliari e successivamente si aggiunsero altre famiglie, che avevano bisogno di gestire i propri averi. Oggi la proprietà è nelle mani della terza generazione con Antonio, Giacomo e Federico Foglia, e la quarta sta iniziando a entrare nell’attività di famiglia. Un viaggio che prosegue dopo oltre un secolo di vita, come il palazzo in cui ci troviamo».
Il vostro Gruppo Ceresio Investors gestisce e amministra un patrimonio superiore ai 9 miliardi e avete un’attività di successo, in controtendenza con la Piazza finanziaria luganese che sta perdendo sempre più posti di lavoro…
«Ci sono più operatori sulla piazza in crescita, ma se ci basassimo unicamente sui numeri sarebbe difficile dire altrimenti: negli ultimi venti anni le banche presenti in Svizzera si sono praticamente dimezzate, principalmente a causa di fusioni e acquisizioni; tuttavia, Lugano continua a essere un polo finanziario di rilievo. Sono più che convinto che il mondo bancario locale abbia un futuro, che dobbiamo però guadagnarci, come del resto vale per ogni altro settore economico. Non essendo però un indovino, non so dirle come sarà il domani; l’importante per un istituto è avere una strategia che sappia evolvere in modo pragmatico, e si adatti ai normali cicli del tessuto economico e regolamentare, regionale e internazionale, in cui opera».
Attualmente contate circa 100 dipendenti a Lugano, 170 a livello di Gruppo. La vostra banca è tra le più solide nel panorama bancario essendo molto ben capitalizzata. Questo significa che vi occupate prevalentemente di private banking?
«Esatto. Fin dalla sua nascita, la banca si è focalizzata soprattutto sulla clientela privata, consolidando un’esperienza costruita attorno alle esigenze della famiglia fondatrice – esigenze condivise da molte altre famiglie. Oggi è naturale che bisogni e opportunità di investimento si siano evoluti nel tempo. Lo sviluppo portato avanti negli anni ci ha quindi condotto ad abbracciare oltre alle attività di gestione patrimoniale, anche le aree della consulenza agli imprenditori e del consolidamento patrimoniale. La consulenza agli imprenditori si rivolge in particolare a chi affronta fasi critiche di finanza straordinaria, come fusioni, acquisizioni, cessioni o quotazioni in borsa, con una quarantina di operazioni concluse tra Italia e Svizzera. L’area del consolidamento patrimoniale adotta un approccio olistico, offrendo una visione chiara e strutturata della complessità degli asset dei nostri clienti. Questo consente loro di affrontare decisioni complesse, spesso rese difficili dalla mancanza di informazioni omogenee e sintetiche. Infine, la pianificazione patrimoniale gioca un ruolo cruciale nei passaggi generazionali, accompagnando le famiglie nelle delicate fasi successorie con soluzioni su misura, volte a garantire continuità, protezione e valorizzazione del patrimonio nel tempo»
Quindi non fate nessuna attività creditizia?
«Come lei ha giustamente osservato la nostra banca è molto ben capitalizzata e questo ci serve anche per dare sicurezza ai nostri clienti. Un credito è indubbiamente anche un’opportunità di business, ma implica introdurre nuovi rischi a bilancio».
Immagino, vista la vostra presenza a Lugano, che molti dei vostri clienti siano ticinesi o residenti…
«Le esigenze patrimoniali delle famiglie sono sovente simili, indipendentemente da dove risiedano e quelle ticinesi non fanno sicuramente eccezione. Nel nostro piccolo, come banca ancorata al tessuto locale tentiamo sia di animare il dibattito organizzando al nostro interno incontri aperti su tematiche non solo finanziarie, sia di sostenere lo sviluppo culturale come evidenziato ad esempio dalle cooperazioni con la Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, la Fondazione ProVenezia o con la Città di Lugano nell’organizzazione dell’Estival Jazz».
Abbiamo capito, da come parla, quanto lei sia legato a questa Banca, non solo dal punto di vista lavorativo, ma anche emotivo…
«Assolutamente (silenzio). Sono arrivato in Ceresio quasi otto anni fa, nel 2018 per la precisione e mi sono sentito immediatamente ben accolto. Dopo un’esperienza ventennale fatta quasi esclusivamente tra Basilea, Zurigo e Ginevra, da buon latino avevo voglia di tornare a latitudini più famigliari, riavvicinandomi anche ai miei genitori, che lentamente stavano invecchiando. Ma non sono arrivato subito a Lugano, lasciata molti anni prima dopo il liceo per andare all’università a Milano. L’opportunità di lavoro inattesa che mi si presentò fu il progetto di riapertura di BSI in Italia. In poco tempo mi sono ritrovato catapultato da Zurigo a Milano e ricordo ancora gli strafalcioni che piazzavo riprendendo a parlare quotidianamente in italiano (ride). Purtroppo, quell’avventura è durata troppo poco, in quanto le disavventure di BSI avevano creato un contesto lavorativo che non permetteva di operare con la giusta tranquillità. Mantengo tuttora bellissime relazioni personali con alcuni colleghi di allora. E diciamo così che, grazie alle casualità della vita e un po’ di passata reciproca conoscenza, sono felicemente approdato in Banca del Ceresio».
Posso chiederle dov’è nato e come mai è così attaccato a Lugano?
«Il Ticino è anche casa mia, pur se nato a Torino e innamorato di Milano. Come spesso capita sono i genitori, i padri, a trasferirsi per lavoro, nel mio caso poi loro ci sono rimasti. Tornando a me sono arrivato a Lugano la prima volta a quattordici anni, qui ho portato a termine il liceo per poi iscrivermi all’Università di San Gallo. In realtà non ci sono mai andato perché, dopo aver superato il test d’ammissione all’Università Bocconi di Milano, mi sono disiscritto; ricordo di aver dovuto pagare anche una sorta di penale amministrativa per aver annullato l’iscrizione… ho subito capito come funzionava la Svizzera: precisione e pragmatismo. Lugano è quindi per me l’adolescenza, il ricordo della famiglia e un presente personale e professionale particolarmente stimolante».
Lei ha una vita privata molto riservata: nessun social, nessuna dichiarazione personale ai giornalisti…
«La sfera privata è un bene che va protetto per sé e per gli altri».
Capisco (silenzio).
Il suo rapporto con il lavoro: lei è molto coinvolto. Immagino che non sia facile trovare momenti liberi per sé e per la famiglia…
«Ho un altro punto di vista: quando ti piace ciò che fai non hai necessariamente bisogno di prenderti una pausa, riuscendo comunque a ritagliarti singoli momenti durante i quali vivi nuove esperienze. Penso che nella vita sia bello appassionarsi senza perdere mai di vista il divertimento, e questo vale un po’ per tutto, in una relazione di coppia, nelle amicizie e anche nel lavoro. Il divertimento non significa solo ilarità, il divertimento per me è poter imparare qualcosa di nuovo, condividere un’esperienza, aiutare a risolvere un problema, trovare una soluzione e guardare avanti in maniera progettuale. Il divertimento esiste unicamente se c’è passione, passione vera; quindi, capirà che per me il lavoro è una passione, proprio perché ritrovo nella mia quotidianità tutte le caratteristiche che mi fanno stare bene, crescere come persona e come professionista. Non si tratta unicamente della carriera, sto parlando di qualcosa di più intimo. Se mi capita di lavorare qualche ora in più, non lo vivo come un peso, così come non guardo l’orologio ogni minuto quando sono con un amico. La formula segreta, quindi, è appassionarsi a ciò che si fa, col piacere di avere sempre nuove sfide da affrontare».
Quindi non ha scelto di studiare economia per caso, oppure ha ereditato questa passione da qualcuno a Lei vicino?
«Non l’ho ereditata da nessuno, almeno che io sappia, ma devo dire che, non so perché, ho da sempre avuto una grande passione per il mondo delle banche. È vero che mio padre lavorava nell’area finanza di Fiat e nell’ultima parte della sua carriera ha lavorato per la banca del gruppo, ma il suo cuore batteva per il mondo industriale. Tornando a me… mi è sempre interessato il ruolo che la banca svolge all’interno di una società e come ne segua gli sviluppi. Questo interesse mi ha accompagnato durante tutti gli studi e quando sono arrivato all’Università è stata una scelta naturale fare economia, passando varie estati nei programmi per universitari di banche a Francoforte e New York. Avrei fatto volentieri anche architettura, ma unicamente per curiosità personale; la verità è che non ho mai avuto nessun tipo di esitazione».
Lei sembra una persona molto positiva, che non si lascia scoraggiare, eppure avrà avuto anche dei momenti difficili nella sua carriera…
«Voglio raccontarle due momenti estremi, non necessariamente difficili, che mi hanno segnato in modo particolare. Il primo è legato alla fusione di SBS (Società di Banca Svizzera) e l’Unione di Banche Svizzere, che diede origine all’attuale UBS SA. Allora lavoravo a Basilea da due anni, ed era come se avessi coronato un piccolo sogno. Poi, a un certo punto, me lo ricordo come se fosse oggi… era sera e nell’edificio dove mi trovavo iniziò un inusuale trambusto: guardie del corpo, alcune persone e – tra di loro – l’allora amministratore delegato dell’Unione di Banche Svizzere. Il giorno dopo annunciarono la fusione. Per chi come me era giovane e amava lavorare in un contesto iperdinamico fu un momento esaltante perché si aprivano nuovi orizzonti. Naturalmente c’era l’incognita di cosa sarebbe successo, ma eravamo tutti molto positivi. Penso che questo sia stato tra i momenti più interessanti della mia carriera, dove in un qualche modo ho interiorizzato il fatto che un grande cambiamento, anche se inatteso, può essere una grande opportunità se affrontato con curiosità. Mi fa pensare a quando abbiamo parlato della Piazza finanziaria luganese: anche le incognite possono essere gigantesche opportunità. L’altro momento invece è stato più duro e, non voglio nasconderlo, mi ha segnato in maniera molto profonda. Ero a Milano, in BSI, impegnato da tre anni in un progetto con un team molto affiatato, più che semplici colleghi. Ognuno di noi ci stava mettendo più del massimo, poi è arrivato il colpo… BSI non sarebbe sopravvissuta. In quel momento ti senti gelare, vorresti fermarti, ma devi continuare a pensare in modo progettuale. E qui si capisce il rischio legato all’incognita, il cigno nero, e devi imparare a gestirlo, anche dal punto di vista emotivo».
Fusioni e acquisizioni possono pesare sul personale, lo sappiamo bene anche in Ticino, in questi casi come si giustificano i bonus milionari dei dirigenti?
«Difficile rispondere anche perché c’è un aspetto emotivo che urta il lettore, ossia come sia talvolta possibile che un’azienda possa ridurre drasticamente i suoi costi, lasciando inalterati i vantaggi economici di pochi. Divido in due la risposta iniziando da un aspetto etico, che lascia libero arbitrio anche nel rinunciare o nel devolvere un compenso ritenuto fuori luogo; ma non posso non guardare anche l’aspetto della certezza del diritto che deve significare assolvere a un contratto indipendentemente dalle valutazioni soggettive o dal giudizio dell’opinione pubblica. Sto volutamente generalizzando anche perché occorrerebbe conoscere approfonditamente ogni singolo caso per poterlo opportunamente giudicare. C’è comunque un elemento sottinteso alla sua domanda che mi porta a riflettere sulla finalità ultima di queste operazioni, sicuramente opportune in mercati di dimensioni sempre più globali, ma talvolta anche fini a sé stesse. Il rapporto tra l’efficienza legata alla scala dell’operatività di un’azienda e il costo connesso al controllo della sua accresciuta complessità può, oltre un certo limite, divenire negativo. In altre parole, se alla crescita a ogni costo si associano rischi che diventano incontrollabili, allora le operazioni da lei citate perdono ogni senso economico per la maggior parte dei soggetti coinvolti, non necessariamente per tutti. È un tema che ho sempre trovato interessante tanto da farne l’oggetto trent’anni fa della mia tesi di laurea».
Mi dica una cosa, lavorare quotidianamente con cifre milionarie non rischia di dare sempre più valore al denaro e a quanto una persona guadagna?
«Il rischio forse esiste, ma non bisogna farne una ragione di vita. Dall’altra parte non bisogna neanche essere ipocriti, il settore finanziario, in generale, continua ad avere tra le remunerazioni medie più elevate sul mercato, questo in tutto il mondo; quindi, in un qualche modo si può avere l’erronea tendenza a giudicare il valore di una persona in base alla sua capacità di reddito. L’errore subentra quando inizi a pensare che la tua capacità di reddito valuti in assoluto le tue capacità intellettive. Questo è il primo elemento distorsivo su cui dobbiamo porre attenzione. Il secondo è legato all’etica del lavoro: il denaro non è fine a sé stesso. È il rispetto di ciò che sottende al denaro che deve farci da linea guida, questa è la mia opinione. Se ci si confronta con soggetti particolarmente abbienti, vanno rispettati e valutati prima di tutto come persone e in seconda battuta va rispettato il lavoro loro o delle loro famiglie che li hanno condotti a tale condizione privilegiata. È l’idea di proteggere quanto altri hanno creato la linea guida che andrebbe sempre seguita nel nostro mestiere».
Visto che abbiamo parlato di sfide non possiamo evitare di parlare di intelligenza artificiale. Cosa ne pensa?
«È un tema affascinante, che però genera spesso più timori che una reale comprensione di ciò che sta accadendo. Mi spiego un po’ meglio… è sicuramente un fenomeno epocale, che nasce da decenni di ricerche, non all’improvviso, eppure se ne parla di colpo molto, spesso con accezione negativa come minaccia agli attuali posti di lavoro. Pensiamo al primo cocchiere inglese quando vide arrivare un treno, al lampionaio che una sera capì cosa fosse l’elettricità o alla prima e-mail spedita da un postino a un amico. La storia dell’uomo è fortunatamente costellata di migliaia di piccole e grandi innovazioni che hanno strutturalmente cambiato la nostra società. Non dico che sarà facile, il cambiamento non lo è mai stato. Anche perché la vera sfida è sociale, legata al come riassorbire nel mondo del lavoro chi subirà l’effetto sostituzione evidenziato dai miei esempi. Sono convinto che parte degli estremismi che viviamo oggi nel mondo occidentale pongano le proprie radici anche nell’incapacità di riqualificare coloro che furono messi a suo tempo fuori mercato dalla robotizzazione delle catene di montaggio. L’intelligenza artificiale sembra toglierci competenza, ma in realtà alza l’asticella spingendo l’essere umano a innalzare il livello del suo sapere, a evolversi per lavorare con essa e a superarsi».
In questo mondo sempre di corsa stiamo facendo scelte che non sono sostenibili a livello ambientale, eppure senza un investimento globale rischiamo di perdere tutto…
«Io sono di natura positiva, quindi vedo l’evoluzione sempre in termini positivi. L’evoluzione è però anche una somma di errori e questo fa parte della storia dell’uomo. Per farla semplice, posso immaginare che chi ha scoperto il fuoco, la prima volta, si sia scottato un dito. Non vedo in maniera differente l’attuale situazione della società, in cui abbiamo commesso errori ambientali, che lo spirito di sopravvivenza porta a compensare con innovazioni di segno opposto. Il vero tema è capire se nel frattempo la società sia già pronta a reagire, ponendosi anche di fronte a delle rinunce. Se devo esprimere una preoccupazione, temo che in questo momento la società si stia talmente polarizzando da perdere la razionalità del ragionamento e quindi la volontà di guardare avanti, concentrandosi invece nella difesa del proprio passato».