Che contributo può dare l’intelligenza artificiale alla medicina?
«Il mondo della medicina genera un’enorme quantità di informazioni. Secondo una stima, nel 2025 i dati sanitari supereranno i diecimila exabyte (più di diecimila miliardi di gigabyte). La ricerca in ambito sanitario, a sua volta, continua a crescere: PubMed, il principale servizio di ricerca di letteratura scientifica biomedica, si arricchisce di un milione di pubblicazioni ogni anno. Sono ordini di grandezza difficili da comprendere e inimmaginabili da analizzare manualmente. Anzitutto, l’intelligenza artificiale può e darà un contributo essenziale nel gestire, interpretare e fare nuove scoperte a partire da questi dati.
In generale, l’IA può rendere più efficienti i processi sanitari, portando a diagnosi precoci e a una maggiore personalizzazione dei trattamenti. Un medico che ha maturato un’esperienza visitando migliaia di pazienti ha una capacità diagnostica maggiore rispetto a un collega alle prime armi. Allo stesso modo, elaborando milioni di dati (testi, radiografie, ECG, elettroencefalogrammi, ecc.) potremmo identificare caratteristiche o interpretare segnali che oggi non cogliamo. L’analisi di questa mole di informazioni consente di riconoscere dei pattern, delle caratteristiche uniche o dei segnali che possono sfuggire al singolo.
L’IA può favorire la medicina di precisione e supportare i medici nella presa di decisioni. Un’altra grande applicazione, ovviamente, riguarda lo sviluppo di nuovi farmaci. Insomma, l’intelligenza artificiale si rivelerà preziosa a tutti i livelli. All’Istituto di tecnologie digitali per cure sanitarie personalizzate della SUPSI (MeDiTech) lavoriamo soprattutto a livello di essere umano».
In futuro ci faremo visitare dalla “Dottoressa IA”? Ci si potrà fidare delle sue diagnosi?
«L’impiego dell’IA in ambito diagnostico ha un grande potenziale, ma sarà essenziale indirizzarne correttamente lo sviluppo. In tanti hanno chiesto un parere medico a ChatGPT, ma il risultato può essere un’informazione pericolosamente falsa. Non è auspicabile seguire questa direzione.
Un problema noto, o il limite attuale, degli strumenti più popolari è che non ci indicano la fonte da cui hanno attinto le informazioni, possono essere vittime di allucinazioni e di pregiudizi (bias). Un caso ben documentato riguarda un gruppo ospedaliero negli Stati Uniti che si è affidato a un’intelligenza artificiale per scegliere i pazienti meno in salute a cui somministrare una terapia più forte. Il problema è che l’algoritmo aveva imparato che le necessità di cura derivavano dai costi generati dai pazienti: più spendi, più sei malato. Negli USA gli afroamericani non hanno molta fiducia nel sistema sanitario o rinunciano alle cure per ragioni finanziarie; è una parte della popolazione statisticamente meno in salute ma che genera minori costi. Apprendendo da questa base errata, l’algoritmo considerava meno malati gli afroamericani, e non gli proponeva il trattamento adeguato. Quando si ha a che fare con l’IA deve valere il principio “fidati ma verifica”, potendo sempre risalire alla fonte dei dati».
L’IA ci permetterà di arrivare in salute a cent’anni?
«Potenzialmente sì. È uno strumento necessario e dal grande potenziale, ma va usato correttamente».
Prima di tutto questo bisogna superare la scarsa qualità e omogeneità dei dati, che rende più difficile il loro utilizzo. Oggi sono tanti, ma molto diversi fra loro. Cosa si sta facendo in questo ambito?
«In effetti è una grande sfida. Ci confrontiamo come una mole di dati molto eterogenei. Quando un medico compila una cartella lo fa in base alle sue esigenze. Non ha il tempo di creare dei codici per l’elaborazione dei dati. Stiamo cercando di superare questo problema grazie all’IA. Dal testo libero della cartella medica si estraggono informazioni che vengono standardizzate per poter essere condivise e confrontate. In questo modo il personale medico e sanitario non cambia il modo di compilare le cartelle e non ha un aggravio amministrativo. L’IA raccoglie le informazioni per creare dei dati strutturati che contribuiscono alla diagnosi, alla ricerca e all’efficacia delle cure.
Spingendosi oltre, l’IA potrebbe aiutare a compilare le cartelle, con una verifica finale, una validazione, da parte del medico. Questo è un punto essenziale che va sempre ribadito: l’IA ha delle capacità superiori rispetto a un singolo individuo, ma non deve sostituirlo, piuttosto aiutarlo a rendere più facile ed efficiente il lavoro».
Di quali progetti vi state occupando all’Istituto MeDiTech della SUPSI?
«Un filone di ricerca importante riguarda l’analisi di dati non strutturati: segnali biomedici come l’elettrocardiogramma, l’elettroencefalogramma, le caratteristiche del sonno; dati misurabili sull’essere umano. Ci occupiamo anche di analisi di immagini e di estrazione di informazioni da contenuti testuali presenti nella cartella clinica elettronica o in altri testi biomedici, come i protocolli di ricerca clinica. Con questi dati sviluppiamo degli algoritmi in grado di prevedere degli eventi.
Abbiamo numerosi progetti in corso. L’analisi degli ECG con l’IA ci ha permesso di identificare delle aritmie impercettibili all’occhio umano, da ricondurre a malattie cardiache rare come la sindrome di Brugada. Un altro impiego prevede di analizzare le immagini termiche del seno per aumentare l’identificazione del carcinoma mammario. Sviluppiamo sensori e dispositivi capaci di scovare dei virus nell’aria anche a bassissima concentrazione. Infine, vogliamo utilizzare i dati raccolti da dispositivi indossabili per monitorare i livelli di stress; oppure creare sistemi per identificare pazienti eleggibili per studi clinici attraverso la loro cartella medica».
Sono alcuni mesi che dirige il MeDiTech dopo una lunga esperienza all’estero, tanti anni negli Stati Uniti seguiti da un’esperienza nei Paesi Bassi. Che indirizzo strategico vuole dare all’istituto?
«Sicuramente ci tengo a sviluppare ulteriormente le connessioni con il settore sanitario cantonale, nazionale ed europeo per trovare la giusta sintesi fra le necessità mediche e le nostre capacità ingegneristiche e informatiche. Un secondo aspetto riguarda l’IA responsabile: vogliamo creare algoritmi affidabili, liberi da pregiudizi e trasparenti. Infine, dare un contributo alla salute di precisione con app, dispositivi indossabili e sistemi integrati che raccolgano segnali biomedici anche al di fuori degli ospedali per permettere di offrire un approccio su misura a ogni individuo sulla base delle sue specificità».