Cambiamento: questa è la parola probabilmente pronunciata con maggiore frequenza nel corso dell’incontro di UBS che ha messo al centro della riflessione le macro tendenze previste per il 2024. Come ha sottolineato infatti Luca Pedrotti introducendo i lavori «il mondo ha conosciuto nel corso degli ultimi anni rapide trasformazioni che hanno sconvolto al tempo stesso l’economia e la finanza, la politica e gli equilibri internazionali, ma anche aspetti che impattano direttamente sulla vita quotidiana, come ad esempio l’irrompere travolgente dell’intelligenza artificiale. Di qui la difficoltà di delineare con certezza gli scenari prossimi venturi, ma anche la necessita di individuare delle linee di tendenza che possano aiutare a indirizzare le scelte di imprese e consumatori nei prossimi anni e che condizioneranno in modo significativo la crescita economica».

«Un primo elemento che è necessario valutare – ha sottolineato Matteo Ramenghi – consiste nel fatto che nel corso del 2023 l’economia degli Stati Uniti è andata meglio di quanto avevano previsto gli analisti. Non c’è stata dunque la temuta recessione, ma questo positivo andamento sembra destinato a rallentare nei prossimi mesi, a fronte delle crescenti pressioni sui consumatori. In ogni caso l’inflazione sta scendendo e in alcune situazioni si può addirittura parlare di deflazione. Anche l’espansione europea dovrebbe restare debole, se non si tratterà addirittura di stagnazione, anche se l’inflazione è decisamente diminuita; mentre la Cina potrebbe entrare in una fase di “nuova normalità”, contraddistinta da una crescita di minore entità, ma potenzialmente di maggiore qualità».

Guardando dunque all’immediato futuro, gli analisti di UBS prospettano un atterraggio morbido dell’economia statunitense e un rallentamento delle prospettive del PIL sia della zona euro (+0,6% per il 2024), sia Svizzera (+0,8% nel 2023 e +0,6% nel 2024). In questo contesto, Elena Guglielmin ha focalizzato la sua attenzione riguardo all’inflazione, «ormai sotto la soglia obiettivo del 2% in Svizzera e in rapido avvicinamento anche nella zona euro e che dovrebbe attenuarsi ulteriormente anche a causa del rallentamento in corso, tanto che le banche centrali potrebbero incominciare a tagliare il costo del denaro. Nello specifico, la Banca Nazionale Svizzera dovrebbe tagliare i suoi tassi guida a fronte di livelli di crescita e inflazione più modesti, ma ciò non dovrebbe avere ripercussioni sui rendimenti delle obbligazioni (pubbliche e private) che sono ritornate dopo molti anni a essere di nuovo un asset d’investimento interessante. Nel caso del sistema produttivo svizzero, le difficoltà legate al rapporto di cambio sono avvertite in particolar modo dalle aziende che si rivolgono ai mercati esteri».

«L’attenzione del mercato – ha proseguito Elena Guglielmin – sembra dunque concentrarsi soprattutto sui modi e i tempi con cui la Federal Reserve, e a seguire la Bank of England, potrebbero cominciare a tagliare il costo del denaro. Dovrebbe seguire la BCE con un taglio a giugno. Queste decisioni potrebbero dare un impulso alle obbligazioni che sono ritornate dopo molti anni a essere di nuovo un asset d’investimento interessante».

Allargando lo sguardo al fine di scorgere gli scenari che presumibilmente si imporranno in modo sempre più evidente nei prossimi mesi, Matteo Ramenghi ha sottolineato come «i rapporti tra Stati Uniti e Cina sono ai minimi storici e potenziali blocchi alle importazioni e agli investimenti cinesi pesano sulle prospettive di crescita di Pechino. Anche lo scorso anno il mercato azionario cinese ha sottoperformato le borse globali di oltre 10 punti percentuali e la causa è da ricercare nei dati economici che si sono rivelati al di sotto delle attese e alla situazione geopolitica. Si riscontrano infatti segnali contrastanti sul rapporto tra Stati Uniti e Cina, e alcuni passi avanti sul piano diplomatico sono stati seguiti da restrizioni al commercio e da dichiarazioni poco concilianti. In modo molto significativo, da inizio anno il Messico ha sostituito la Cina quale principale partner commerciale degli Stati Uniti. Inoltre, il Dipartimento del Tesoro statunitense ha proposto un meccanismo per selezionare gli investimenti all’estero del settore privato nelle tecnologie avanzate in campo militare e nella cybersecurity in Paesi definiti of concern, cioè preoccupanti. Tra questi sono stati inclusi la Cina e le sue regioni a statuto speciale, Hong Kong e Macao. Non si tratta di un blocco tout court ma in sostanza di un diritto di veto nei confronti di alcuni investimenti esteri. Il risultato con tutta probabilità sarà di limitare ulteriormente i flussi di capitali verso la Cina per rallentare lo sviluppo di tecnologie avanzate che potrebbero rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti. Ad analoghe strategie guardano con interesse la maggior parte delle economie avanzate dei Paesi occidentali, in settore di particolare rilevanza in un’ottica di transizione energetica, si pensi per esempio al caso della produzione di batterie per i motori elettrici».

Tra le altre sfide dei prossimi anni gli analisti di UBS individuano senza dubbio quelle della demografia, della digitalizzazione, ma anche della transizione energetica e politiche di gestione del debito pubblico. La demografia rappresenta forse la minaccia più grande: le economie più avanzate del mondo come il Giappone e diversi Paesi europei (Germania e Italia incluse), e in prospettiva la Cina – si trovano alle prese con un calo e un invecchiamento della popolazione. Questo avrà verosimilmente un impatto negativo sui consumi e sulla disponibilità di forza lavoro, con la quota dei pensionati sulla popolazione attiva che è già aumentata dal 12 al 15% su scala globale nell’ultimo decennio. «In questo senso – spiega ancora Ramenghi – la digitalizzazione potrebbe venire in aiuto, sostituendo la forza lavoro mancante con l’intelligenza artificiale: secondo alcuni studi, l’IA potrebbe portare a un aumento della produttività tra il 2 e il 7%».

Sullo sfondo resta la transizione energetica, necessaria per contrastare un’emergenza climatica sempre più pressante. Anche se per anni la domanda di petrolio continuerà ad aumentare, riflette l’esperto, proseguiranno gli investimenti (pubblici e privati) nell’energia rinnovabile, nelle batterie e nello sviluppo di nuove tecnologie. «Ad accomunare tutte queste sfide – ha concluso Matteo Ramenghi – è la necessità di forti investimenti per poterle affrontare: proprio per far fronte a queste trasformazioni, dunque, è probabile che i debiti pubblici saliranno nei prossimi anni. Il modo migliore per gestire il debito è di poter contare su una robusta crescita, spinta anche dagli investimenti; ma, se così non fosse, occorrerebbe pensare a un aumento della tassazione, default sovrani e repressione finanziaria, per mantenere i rendimenti dei debiti pubblici al di sotto dell’inflazione».