Quali sono le motivazioni ideali che l’hanno spinta a impegnarsi in politica?

«Noi possiamo decidere di non occuparci di politica ma la politica si occuperà comunque di noi. Terminati gli studi a Friborgo e rientrato in Ticino la scelta è stata quella di impegnarmi per la collettività. In primo luogo nel piccolo comune nel quale vivevo: Villa Luganese. Mettere a disposizione del tempo e delle competenze per la cosa pubblica è, a mio avviso, una bella dimostrazione di attaccamento al territorio e alla comunità a cui si appartiene. A livello politico sono rimasto molto impressionato dal coraggio e dalla determinazione di una personalità svizzera che ha lottato da sola contro tutti per assicurarci un Paese indipendente e neutrale: Christoph Blocher. Oggi nessuno ha più il coraggio o la voglia di parlare di adesione all’Unione europea ma, nel 1992, la strada sembrava segnata. Mai avrei pensato un giorno di riprendere la sua carica di Vicepresidente dell’UDC Svizzera assieme alla figlia Magdalena».

Lei è Presidente della delegazione svizzera per i rapporti col Parlamento italiano. Come giudica al momento lo stato delle relazioni tra i due Paesi?

«I rapporti istituzionali con la vicina Italia sono contraddistinti da alti e bassi. Il nostro Paese ha assistito al susseguirsi a Palazzo Chigi di numerose compagini governative nell’ultimo ventennio. Alcune fra esse non sono state particolarmente tenere con la Svizzera. Ricordo le continue frecciatine dell’allora Ministro Tremonti nei nostri confronti. Oggi restano alcuni dossiers aperti sul tavolo che sembrano destinati alle calende greche, accordo sui frontalieri e accesso al mercato finanziario italiano su tutti. Un altro grande cantiere è il proseguimento a sud dell’Alptransit. Tra Parlamentari non nascondo che il clima è piuttosto cordiale ma poi, malgrado questa diplomatica ostentazione di serenità, non riusciamo a segnare punti. Da una parte è anche colpa nostra. Abbiamo negoziato con la controparte in maniera troppo accondiscendente. Zelanti e precisi, come sappiamo essere noi svizzeri, ci siamo assunti doveri ottenendo in cambio solo speranze e vane promesse. Ingenuità che oggi stiamo purtroppo ancora pagando».

Negli ultimi mesi si è particolarmente occupato delle condizioni d’accesso al mercato tra la Svizzera e gli stati limitrofi in un’ottica di reciprocità. Quali sono le sue proposte in merito?

«Il Consiglio nazionale ha recentemente accettato un mio postulato che richiede la stesura di un rapporto completo e circostanziato sulle condizioni d’accesso al mercato dei paesi limitrofi da parte di ditte svizzere in un’ottica di reciprocità. È ora necessario avere una fotografia chiara dei problemi quotidiani delle nostre imprese esportatrici. Cosa che d’altronde è stata documentata anche dalla Camera di Commercio ticinese a mezzo di un suo sondaggio negli anni scorsi. Regolarmente ci vengono riferiti episodi che fanno pensare a ostacoli commerciali seminati ad arte sul percorso per disincentivare la vendita dei nostri prodotti all’estero. Mentre, al contrario, noi sappiamo bene quanto siamo ligi nell’applicare i contratti sottoscritti. Sono certo che da questa analisi si potranno evidenziare le distorsioni da correggere grazie a interventi istituzionali. Interventi che potrebbero addirittura prevedere lo stesso trattamento sul nostro territorio fino a quando le condizioni siano paritarie». 

Come potrebbero essere riassunti i contenuti e gli obbiettivi del suo impegno per l’autodeterminazione?

«Traduco il concetto di autodeterminazione con il diritto di un Paese e dei suoi cittadini ad avere l’ultima parola. Il sistema svizzero è straordinario perché garantisce, grazie alla democrazia diretta, l’espressione e l’applicazione della volontà del Popolo e dei Cantoni. L’elemento fondante e aggregante della nostra nazione è la Costituzione federale. Non posso pensare di metterla in secondo piano rispetto al diritto internazionale. Eppure è ciò che capita oggi e che capiterà anche in futuro con la sottoscrizione di un accordo istituzionale con l’Unione europea. Il colonialismo di questo contratto è determinato dal fatto che in caso di divergenza il Tribunale arbitrale chiamato a ricomporre le vertenze tra la Svizzera e l’Unione europea sarà vincolato dalle sentenze della Corte di Giustizia europea. Ciò significa che la Svizzera sarà chiamata a ubbidire e a sottomettersi a dei giudici stranieri. Pena il pagamento di indecifrabili sanzioni che in diplomazia sono gentilmente definite misure di compensazione.

Un’altra questione di grande interesse riguarda la regolamentazione dell’afflusso di lavoratori frontalieri. Quali sono le iniziative che a suo giudizio dovrebbero essere intraprese?

«Fino al 2008 era in vigore un’ordinanza che regolamentava il flusso di lavoratori stranieri nel nostro Paese. L’ordinanza che limitava l’effettivo degli stranieri, emanata il 6 ottobre 1986, sanciva la preferenza indigena sul nostro mercato del lavoro. In caso di domande per l’esercizio di una prima attività lucrativa, il datore di lavoro infatti doveva, se richiesto, provare che aveva fatto tutto il possibile per trovare un lavoratore sul mercato indigeno, che aveva notificato il posto vacante presso la competente autorità preposta al mercato del lavoro e che detta autorità non aveva potuto trovare un lavoratore entro un periodo di tempo ragionevole. Infine che non aveva potuto formare o far formare per il posto di cui si trattava, entro un periodo di tempo ragionevole, un lavoratore disponibile sul mercato del lavoro. Sono favorevole alla complementarietà tra le risorse indigene e quelle estere e dunque mi oppongo a fenomeni come quelli della sostituzione della manodopera e del dumping salariale. Fenomeni a lungo negati ma che oggi nessuno osa più mettere in discussione e dei quali sono testimoni i 17 contratti normali emanati dal Consiglio di Stato. A mio avviso è necessario fare un maggior sforzo nella ricerca e nella formazione di personale indigeno perché è su questi padri e madri di famiglia, figli e figlie che si sviluppa la nostra società, la nostra pace sociale e il nostro benessere odierno e futuro».

Quali altri temi ha scelto di mettere al centro del suo impegno politico e quali sono stati i principali risultati ottenuti?

«Ho avuto la fortuna e l’onere di rappresentare il mio partito in tutti i livelli legislativi. Man mano che mi avvicinavo a Berna ho visto crescere l’ampiezza dei problemi che affrontavo e la complessità delle soluzioni. Ricordo con passione e interesse il periodo di “Prima i nostri” e il successo popolare di questa iniziativa costituzionale. La gente non voleva escludere qualcuno dal mercato del lavoro ma richiedeva una sorta di rassicurazione, quella che vigeva fino al 2008. Sono fiero che queste discussioni abbiano contribuito a sensibilizzare il nostro tessuto economico. D’altro canto il mio impegno è sempre stato rivolto alla creazione di condizioni quadro favorevoli, ad esempio in ambito fiscale, alla nascita e allo sviluppo delle aziende, nuove o già presenti sul territorio. Non ho mai partecipato alla denigrazione politica degli imprenditori che, al contrario, dovrebbero essere agevolati in quanto rischiano in proprio con il loro capitale. Certo anche loro sanno che nella categoria ci sono dei filibustieri che non sono degni di essere chiamati imprenditori. E questi non devono riuscire a inquinare l’immagine di una categoria talmente importante. Un ultimo aspetto a me caro è il potere d’acquisto del ceto medio. Il ceto medio contribuisce alla stabilità di una società. La mia ultima iniziativa parlamentare prevede ad esempio la possibilità di aumentare le deduzioni fiscali dei premi dell’assicuratore malattia che premono sulle spalle dei contribuenti e tolgono loro del potere d’acquisto. La cosa migliore è lasciare il più possibile i soldi nelle tasche dei cittadini».

Qual è la sua valutazione sullo stato delle condizioni economiche e sociali del Ticino e quali soluzioni andrebbero adottate?

«Il nostro Cantone si trova ad un crocevia della sua storia. La grande fase espansiva degli ultimi decenni è oramai un ricordo e alcuni settori che hanno funto da traino per tutta la nostra economia, da tempo, segnano il passo dando preoccupanti segnali di cedimento. Anche a causa di forti pressioni esterne a cui non opponiamo troppa resistenza. Mi riferisco in particolare al settore bancario e fiduciario che ogni anno vede assottigliarsi le sue fila e diminuire le opportunità. Siamo di fronte a una grande e nuova sfida, a un Cantone che deve reinventarsi. Non dobbiamo permettere che quella che è definita l’economia dei lavoretti si impadronisca del nostro tessuto economico e che la sottoccupazione continui a crescere. Dall’entrata in vigore della libera circolazione le fila delle persone in assistenza e quella dei sottoccupati è più che raddoppiata, da 8’000 a 18’000, e questo è indice di una sofferenza che non può e non deve essere sottovalutata. Siamo un Cantone che deve guardare a nord, che è chiamato a creare delle condizioni quadro per l’insediamento di società ad alto valore aggiunto e che deve puntare su comparti di qualità. Senza queste premesse la nostra economia non riuscirà mai a generare stipendi all’altezza delle nostre esigenze rimanendo concorrenziale sul mercato internazionale».