Daniela Finzi Pasca, quando ha sognato per la prima volta di trovarsi su un palcoscenico o nell’arena di un circo?
«Ho iniziato a capire che era bello guardare in faccia gli spettatori facendo il chierichetto al Sacro Cuore. Bisognava restare seri, pettinati bene e non fare le boccacce. Seduto accanto a Don Reggiori mi sono reso conto che con un nulla si sarebbe potuto far ridere tutta la chiesa e rilassare l’ambiente. Non sono diventato prete, troppo complicato, ho deciso di diventare clown per far sorridere, poi ho scoperto che noi attori possiamo raccontare storie commoventi».
Quali sono state le più importanti esperienze formative che le hanno consentito di diventare un artista versatile e poliedrico?
«Una mattina a colazione mio fratello più piccolo chiese con tutta l’ingenuità del mondo: “Perché Daniele la notte esce dalla stanza passando dalla finestra e non dalla porta?”. Effettivamente sin da bambino mi svegliavo presto, prestissimo; ancora oggi alle 5 del mattino sono in pista. Mi svegliavo e mi calavo dal primo piano in giardino e poi ciao, mentre tutti dormivano. Anni dopo ho capito che i miei sapevano delle mie fughe e a volte mi seguivano mantenendosi a distanza. C’è chi regola i fili d’erba del prato così che il giardino sia perfettamente proporzionato, altri invece amano l’esuberanza della natura che sceglie di crescere verso la luce come gli pare, come gli riesce, come può. Sono una pianta cresciuta in un giardino dove la mia individualità è stata protetta e stimolata. Sono cresciuto in una famiglia dove ho potuto spettinare le mie fronde e crescere con esuberanza. Sono cresciuto in un giardino dove era di casa la fantasia».
Si può imparare la professione del clown o bisogna avere delle specifiche competenze?
«Ci vogliono maestri, bisogna seguirli “rubando” il mestiere a bottega. Bisogna superare e digerire le batoste e non fare caso ai primi successi. Bisogna avere fortuna e per noi che facciamo teatro è essenziale saper lavorare in gruppo».
Che cos’è il talento artistico e cosa occorre fare per valorizzarlo?
«Il talento è un regalo che va messo alla prova ogni giorno, non servirsene è tra gli errori più stupidi che si possano commettere. Il talento va forgiato, è un seme piccolo, va coltivato con attenzione, cura. Il talento è un regalo meravigliosamente complicato da gestire, è un atto di fedeltà ad una promessa che ti lega per tutta la vita. Il talento da solo non serve a nulla, chiuso in un cassetto non serve proprio a nulla, per farlo diventare una pianta grande ci vuole tanta perseveranza».
Cosa l’ha spinto a fondare il Teatro Sunil e qual è il bilancio di quella straordinaria esperienza?
«Con i miei fratelli e un gruppo di amici avevamo una fissazione, una missione, un’idea piccola a cui tenevamo molto e così ci siamo messi al lavoro: volevamo cambiare il mondo».
Al Teatro Sunil ha sviluppato insieme a suo fratello Marco e Maria Bonzanigo la tecnica del «Teatro della Carezza», una visione di clowneria, danza e gioco. Che cosa significa questo approccio?
«Ci sono storie che curano, che possono trasmettere la sapienza delle esperienze vissute da chi ci ha preceduto, le domande piccole e grandi che abitano le nostre angosce. Il nostro teatro è profondamente legato allo studio dell’empatia, i nostri attori lavorano per espandere la loro percezione del circostante; non pensiamo a cosa fare sulla scena, ci alleniamo ad abbracciare il pubblico».
Il Canada è una base storica significativa delle sue creazioni artistiche. Per quali ragioni, insieme e ai co-fondatori della Compagnia Finzi Pasca avete poi scelto Lugano come sede principale?
«Montréal mi ha accolto, ho lavorato e collaborato con i maggiori teatri, con il Cirque du Soleil, con il TNM e tante altre istituzioni. È successa la stessa cosa in Messico, in Uruguay, a San Pietroburgo, a Parigi, New York, Londra. Sono tornato a Lugano quando il LAC aveva bisogno di una legittimazione per esistere e per giustificarsi, sono tornato con la voglia di trasmettere quanto avevamo scoperto».
Il suo rapporto con le amministrazioni pubbliche comunali e cantonali non è stato sempre idilliaco. Qual è la situazione attuale e come giudica la politica culturale, nel campo dello spettacolo, portata avanti dalla città di Lugano?
«Negli ultimi 9 anni abbiamo presentato 8 diversi spettacoli al LAC totalizzando più di 59.000 spettatori, se aggiungiamo le repliche nel resto del Ticino i numeri crescono ancora e questo racconta dell’affetto che ci circonda. Ho lavorato per produttori a Broadway, per le maggiori case d’Opera, nel 2019 sono stato addirittura invitato a Vevey a dirigere quella pazza e meravigliosa Fête des Vignerons, un ticinese a dirigere una Confrérie Vodese… du jamais vu. Ci sono stati i successi con il Cirque du Soleil o le Cerimonie Olimpiche che si misurano a suon di milioni di spettatori. In tutte queste avventure ho dovuto imparare a reggere la pressione, i soldi in gioco erano tanti, le aspettative, molteplici le incognite, ho dovuto dialogare con mostri a cento teste. A casa è più facile, molto più facile».
Quali sono i più importanti progetti che lo vedono attualmente impegnato?
«Abbiamo ottenuto i diritti per Prima Facie di Suzie Miller, un’opera teatrale importante, un monologo che sarà interpretato da mia moglie Melissa Vettore. Sono anni che sentiamo parlare della violenza che le donne subiscono e di come sia difficile difenderle. Malgrado la densità del tema, lo affronteremo con il nostro sguardo trasognato. Stiamo mettendo molto cuore in questo progetto, complesso e difficile da affrontare ma tremendamente necessario».
E per il futuro, c’è un progetto che vorrebbe assolutamente realizzare?
«Tanti, forse un giorno dirigere il teatro della Città dove sono nato o il Carnevale di Rio, o il Festino a Palermo, o Icaro da Baryshnikov a New York».