Dottoressa Laura Mattioli, Lei è molto nota come collezionista: quali esperienze o influenze della sua vita hanno contribuito a plasmare la sua passione per l’arte?
«La mia passione per l’arte è nata in famiglia, dato che mio padre era appassionato di arte moderna, amico di artisti, importante collezionista e mecenate. Era lui il famoso collezionista… non io! Sono conosciuta nel mondo dell’arte italiano soprattutto perché ho ereditato la sua collezione e l’ho gestita per 35 anni. Non mi considero una vera collezionista, in quanto non ho mai avuto un vero progetto collezionistico come lui, che voleva rappresentare con la sua raccolta la storia dell’arte italiana della prima metà del XX secolo. Io ho semplicemente acquistato opere di artisti amici che stimo e delle cose che, in quel momento, suscitavano in me delle emozioni. Il che significa fare shopping – o mecenatismo – se si vuole intendere in questo modo un gesto di stima e di amicizia come comperare opere di amici artisti».
Qual è stata la sua esperienza personale con l’arte e come ha coinvolto i suoi figli in questo mondo?
«Oltre che ‘collezionista’ – come lei mi ha definito prima – ho studiato storia dell’arte, scritto testi scientifici, insegnato a livello universitario, curato mostre. Diciamo che quella di storico dell’arte/curatore di mostre è stata la mia professione durante tutta la vita. Poiché l’ho fatto con passione e ho sempre lavorato in casa, i mei figli fin da piccoli hanno visto la mamma che lavorava in questo campo, parlava di arte, incontrava artisti, quindi sono stati convolti in modo naturale, visitando mostre con me o aiutandomi ad allestire. Inoltre avevamo esposta in casa la collezione notificata di mio padre, con cui loro sono cresciuti. Però, con il tempo, si sono entrambi distaccati dall’arte: adesso uno ha un’azienda di prodotti per l’alpinismo e l’altro studia fisica. Per loro l’arte è rimasta una occupazione necessaria per gestire l’eredità ricevuta, ma secondaria rispetto ai loro interessi personali».
Perchè ha deciso di lasciare l’Italia e trasferirsi a New York?
«Ho deciso di lasciare l’Italia soprattutto perché disgustata dalla politica italiana e dalla gestione del patrimonio artistico. Mi sono stabilita a New York (dopo un primo periodo di cinque anni trascorso in Svizzera) per lavorare meglio alla fondazione che vi ho creato nel 2013, il Center for Italian Modern Art (CIMA)».
Che emozioni le risveglia la parola filantropia e a quali ricordi è legata?
«La parola ‘filantropia’ mi sembra una parola difficile e non di uso comune. Significa, letteralmente, amore per l’uomo, cioè amore per il prossimo. Mi sembra che la filantropia che dovrebbe essere un impegno comune a tutti noi, semplicemente in quanto esseri umani!
Credo però che lei riferisca questa parola ad attività benefiche volontarie promosse da persone che hanno delle buone, o più che buone, situazioni finanziarie. Queste persone, invece di godersi i soldi che hanno o di pensare solo a guadagnare di più, usano parte del loro denaro per sostenere una causa benefica. Devo dire che la filantropia è molto diffusa negli USA, anche perché permette di avere degli importanti vantaggi fiscali, e coinvolge la maggior parte delle persone della media e alta borghesia. Essa è certamente considerata un importante ‘status simbol’, ma credo che faccia parte di una mentalità di origine religiosa, in particolare protestante, considerare doveroso condividere socialmente i beni materiali che si ha la fortuna di avere. Invece in Europa la filantropia non è considerata un’attività ordinaria e non rientra di per sé nei normali doveri del cittadino».
Quali sono i progetti o le cause filantropiche a cui è più legata e che ritiene abbiano avuto un impatto significativo?
«Mi sembra che lei mi stia chiedendo quale delle mie attività filantropiche sia stata la più importante e abbia avuto maggior successo. Certamente il CIMA, soprattutto per le borse di studio che hanno permesso a circa 50 giovani storici dell’arte nel corso di dieci anni di avere un’importante esperienza di vita e di lavoro a New York, contribuendo in modo decisivo alla loro crescita personale e professionale».
Quali sfide o difficoltà ha incontrato nel suo percorso filantropico?
«La maggiore difficoltà che ho incontrato è stata il fundraising. Ho fondato una ‘public charity’, cioè un tipo di fondazione che per la legge americana deve ricevere almeno un terzo del suo bilancio da più di dodici donatori. Però, poiché io avevo creato la fondazione, tutti pensavano che fosse una specie di mio passatempo personale, il giochino di una ricca signora che non aveva ormai nulla da fare e che aveva deciso di promuovere l’arte italiana moderna a New York perché figlia di un importante collezionista di arte moderna; che, quindi giocava in casa e promuoveva i suoi interessi. Di conseguenza nessuno (imprese italiane con interessi commerciali in USA, banche, associazioni, personaggi italo-americani, galleristi) ha voluto sostenere economicamente la fondazione. Così, dopo dieci anni di attività, abbiamo dovuto chiudere».
In ambito filantropico le buone intenzioni non sono sufficienti a fare la differenza: quali elementi fanno secondo lei di un mecenate un buon mecenate?
«Le situazioni e le legislazioni cambiano molto sia nel tempo che nei diversi paesi. Quindi non credo che ci possa essere una sola risposta, che vada sempre bene. Certamente bisogna guardare alla attività filantropica strutturata (in una fondazione o in un altro tipo di associazione equivalente) come ad una qualsiasi società a scopo di lucro, con obiettivi concreti e ragionevoli, personale professionale e una seria programmazione economica. Bisogna valutare il contesto e l’impatto sociale della attività, dare attenzione alla comunicazione, alla rete di alleanze- collaborazioni- scambi che si possono sviluppare, alla situazione politica in cui si opera».
“La filantropia delle arti favorisce solo gli artisti già affermati?” Alcuni sostengono che i filantropi tendano a sostenere artisti noti, trascurando talenti emergenti.Come valuta questa affermazione?
«Direi che spesso il collezionismo è inteso come una forma di investimento alternativo. Acquistare artisti noti equivale ad acquistare delle azioni solide. Questo non mi sembra essere né vero collezionismo, né filantropia, quanto piuttosto una forma di investimento, a mio parere molto più rischiosa di quanto non si pensi abitualmente perché i gusti cambiano e quello che piace ed è di moda in un certo momento, poi passa di moda e perde di valore. Credo che il vero collezionista sia un grande conoscitore di quello che colleziona e debba seguire il suo gusto e i suoi interessi. Il mecenate dovrebbe sostenere artisti ai margini del mercato, che grazie al suo aiuto possono continuare a fare il loro lavoro. Naturalmente il problema è quello di sostenere dei bravi artisti… ma questo è il rischio da correre. A volte si pensa di più a sostenere una persona bisognosa di aiuto che al valore della sua arte… ma forse è giusto fare così!».
Il Center for Italian Modern Art (CIMA) è stato un centro di studio e di divulgazione situato nel quartiere SoHo di Manhattan, a New York, specializzato nell’arte moderna italiana. Lei l’ha istituito con successo. Quanto di filantropico c’era in questa scelta e perchè ha deciso di chiuderlo?
«Il CIMA si può considerare un’attività filantropica in quanto è stato un luogo di educazione a più livelli: quello per i borsisti, che hanno perfezionato il loro percorso professionale e di studio, e quello per un pubblico più generico, che si è avvicinato a temi poco noti alla cultura americana. Il CIMA ha svolto anche una attività con le scuole, dai bambini più piccoli ai liceali, agli universitari. E’ stato chiuso per problemi economici, cioè per mancanza di sostenitori dal punto di vista economico, e per il clima culturale affermatosi negli USA dopo la pandemia, che non ha interesse per l’arte Europea, considerata frutto di una cultura colonialista e discriminatoria, e ne contesta i valori».
Come affronta le critiche o i dubbi riguardo alle sue scelte filantropiche?
«Devo dire che ho ricevuto pochissime critiche. Forse la critica più comune è stata quella di essere un centro con una impostazione troppo accademica. In realtà l’esperienza che i borsisti hanno fatto a New York è stata molto più importante a livello umano e personale che propriamente accademico. Poi ciascuno reagisce in modo diverso alle situazioni e quindi ci sono persone che hanno avuto un’esperienza più positiva e altre meno».
Lei è una personalita di grande successo: che cosa ritiene di avere dato al mondo dell’arte e che cosa al mondo della filantropia?
«Francamente non credo di essere una persona di grande successo. Vado controcorrente, dico sempre quello che penso e così mi creo moltissimi nemici. Al mondo dell’arte credo di aver dato delle opere, sostenendo la realizzazione di progetti che altrimenti non sarebbero esistiti. Penso, ad esempio, alla installazione di Dan Flavin alla Chiesa Rossa di Milano, reso possibile anche dal fondamentale contributo della Fondazione Prada. Al mondo della filantropia penso di aver dato, con il CIMA, un modello nuovo di fondazione a scopo educativo, che prima non esisteva».
Come vorrebbe essere ricordata?
«Vorrei lasciare dietro di me dei segni di bellezza. Saranno effimeri come una rosa, ma aiutano a vivere più serenamente».