Chi è Fra Gabriele Trivellin?

«Ho 57 anni, sono nato in provincia di Varese. Sono entrato in convento dopo la maturità classica e sono un frate minore francescano da 37 anni. A 27 anni, dopo gli studi di filosofia e teologia, sono stato ordinato sacerdote e ho chiesto di poter partire come missionario in Africa».

Nella sua vita pastorale lei si è molto occupato di generosità?

«Dopo gli anni di studio, dopo aver ricevuto tanto dalla mia famiglia e dalla mia comunità religiosa, sentivo il desiderio e il dovere di condividere tempo ed energie, di restituire in modo concreto il bene di cui ero stato fatto beneficiario. Ho vissuto in Rwanda dal 1989 al 1992, tra i contadini delle colline al nord, in un paese bellissimo, sovrappopolato e con una economia di sussistenza. Purtroppo la guerra, dopo l’uccisione di due confratelli, ci ha obbligato a lasciare il paese e i miei superiori mi hanno richiamato in Italia. Lì, nei diversi conventi dove ho vissuto con altri frati, abbiamo sempre cercato di tenere insieme la dimensione pastorale (catechesi, sacramenti, annuncio) e la dimensione caritativa secondo la testimonianza di san Francesco d’Assisi, che proprio nell’incontro e nell’abbraccio di un lebbroso – di cui provava repulsione –  sperimenta una vera conversione di vita e si metterà così al servizio dei più poveri. Ho vissuto questo servizio nelle mense per i poveri presso i nostri conventi; abbiamo poi costituito centri di accoglienza e di ascolto per accompagnare nel reinserimento le tante persone in situazione di precarietà economica e lavorativa. Lavoriamo, come frati, tra i senza tetto e cerchiamo di rispondere alle diverse emergenze sociali. In questi ultimi anni dirigo il nostro Ufficio Sviluppo e Raccolta Fondi, chiamato Francescani per la vita, chiamato a sostenere le tante opere caritative per i poveri o persone a rischio povertà nel Nord Italia e in tanti paesi all’estero dove lavorano i nostri missionari».

Che ruolo ha la filantropia oggi per la Chiesa Cattolica?

«Uso il termine carità più che filantropia perché in ambito cristiano carità e filantropia non sono sinonimi. La carità cristiana è ha la sua origine in Dio: è l’amore di Dio verso l’uomo che quest’ultimo può trasformare in amore verso il prossimo non solo con doni e denaro ma con la sua presenza. Ricordo alcune parole di Gesù: <Amatevi come io vi ho amato>, <Ogni aiuto che avete dato ad uno di questi piccoli, l’avete dato a me>, <Avevo fame e mi avete dato da mangiare>; sino al radicale insegnamento dell’amore per il nemico <amate i vostri nemici>! <Se amate quelli che vi amano… se salutate quelli che vi salutano… che cosa fate di straordinario?>. E’ l’amore di Dio che mi ha spinto a consacrare, donare la mia vita agli altri. Quando si scopre che Dio è Padre, allora l’altro è fratello, sorella… anzi per san Francesco ogni creatura è fratello: fratello sole, sorella luna, madre terra… Ma se carità e filantropia non sono sinonimi, parlano ambedue del medesimo oggetto, e cioè l’uomo e la donna nel bisogno, tenendo presente la vasta tipologia di bisogni e di povertà nelle diverse condizioni di vita. La compassione ci fa accorgere dell’altro e ci fa sensibili alle sue esigenze e ai suoi bisogni».

Se dovesse indicare alcuni filantropi cattolici del passato che si possono indicare come riferimento, chi citerebbe?

«Così abbiamo i grandi santi che fondarono già nel Medio evo i primi ospizi, per pellegrini e malati (es. Santa Elisabetta d’Ungheria); nascono i primi ospedali per iniziativa di uomini e donne che donano parte del loro patrimonio proprio per farsi carico dei bisogni dei più deboli; abbiamo i missionari che partono per ogni angolo del mondo; abbiamo poi i grandi santi sociali del XIX secolo: san Giovanni Bosco, il Cottolengo e tantissimi altri. E si comprende che la carità deve essere fatta con intelligenza: non basta voler fare il bene; bisogna saperlo fare bene (di manzoniana memoria). Non si tratta solo di beneficienza ed assistenzialismo, ma di donare futuro e speranza, possibilità di riscatto e di crescita».

Qual è la posizione della Chiesa Cattolica sul tema della filantropia?

«Certamente la filantropia è già da sola un grande contrassegno dell’umanità dell’uomo, e merita di essere sempre incoraggiata e sviluppata. Sempre più dobbiamo renderci conto che il donare il proprio tempo, le proprie energie e, quando si può, il proprio denaro è importante perché serve anche a diffondere una cultura di cui oggi c’è grande bisogno, quella del dono, la cultura proprio della filantropia. E bisogna farlo attraverso il comportamento degli individui o delle aziende nel loro contesto economico e sociale, per creare una società locale e globale più sostenibile per tutti, un atteggiamento che aiuti la società a non allargare la forbice tra ricchi e poveri. La grande sfida della filantropia è migliorare “strutturalmente” la condizione dei deboli attraverso azioni che forniscano loro le risorse per individuare e perseguire questo obiettivo (un cristiano direbbe: eliminare le strutture di peccato)».

Possiamo aspettarci che un giorno la Chiesa prenda una posizione ufficiale sulla filantropia, che ci sia insomma una lettera ai filantropi di questo mondo?

«Credo che gli insegnamenti dell’attuale papa Francesco invitano tutti a fare della filantropia uno stile di vita. La ricchezza materiale è solo uno degli aspetti che caratterizza la ricchezza: oggi quel che conta davvero è la politica dell’accesso. Accesso uguale ricchezza, esclusione uguale povertà; dare accesso per creare prospettive, futuro e per superare la cultura dello “scarto”, come direbbe papa Francesco. Ovviamente si tratta di un percorso difficilissimo perché nella nostra Europa, nei Paesi avanzati che oggi crescono poco economicamente e nel contempo vedono la vita media allungarsi considerevolmente, vi sono oggettivamente meno possibilità, si tende a mantenere lo status quo. Chi ha una posizione privilegiata o un vantaggio competitivo tende a mantenerlo escludendo gli altri. Abbiamo bisogno di grandi filantropi per investire in fattori di accesso importanti, per creare le condizioni di miglioramento: la conoscenza, la condivisione delle opportunità e delle reti relazionali, accesso al credito. E’ interessante notare che proprio dei frati francescani, che hanno fatto della povertà un ideale di vita, crearono nel ‘400 i primi “monti di pietà”. E’ quindi necessario passare dalla beneficenza ad una filantropia strutturata».

Che cosa si consiglierebbe di consigliare ai filantropi cattolici?

«La filantropia si rivolge ad un mondo in continuo movimento (migrazioni) e in continuo cambiamento (culturale, economico, ecc.): non ci si può limitare ad aiutare chi è povero; abbiamo bisogno di obbiettivi, strategie, metodi e verifica dei risultati (quale impatto sociale, quali risultati…). E poi dobbiamo combattere i meccanismi di chiusura sociale: apertura sociale vuol dire investire per creare quelle opportunità per cui le persone, con le loro forze, possano migliorare la loro condizione. Usando un linguaggio evangelico direi essere dei buoni amministratori, valorizzare i talenti, aiutare tutti a riconoscere il proprio talento. Questa è la filantropia strutturata, che nasce dall’emozione, dalla compassione e attraverso la ragione crea strutture di crescita, sviluppo. Con il cuore e la ragione si genera fiducia nel futuro e si comunica un sentimento di “sicurezza”. Il filantropo non ha la sensazione di fare qualcosa che lo fa stare bene ma qualcosa che è necessario fare per continuare a stare bene insieme e vivere in una società armoniosa».

Sono da poco trascorse le festività legata al Natale…

«Il donare cristiano, la nostra generosità nasce dall’esperienza di aver ricevuto in dono la vita, i nostri talenti; nel Natale Dio stesso si dona all’uomo in un modo talmente radicale da incarnarsi nel Figlio Gesù. Oggi lo possiamo accogliere nelle sorelle e nei fratelli che non hanno un posto in questo mondo. Allarghiamo dunque la tenda del nostro cuore».