Rileviamo alcuni di questi segnali. Molti Stati sono indebitati, spesso a causa di una cattiva gestione della cosa pubblica. Qual è la risposta? Spesso, purtroppo, non la messa in atto di pratiche di gestione virtuosa della cosa pubblica, bensì la criminalizzazione indiscriminata di aziende floride e persone abbienti; suscitando il sospetto che (per il solo fatto di essere floride o di essere benestanti) abbiano conseguito profitti in modo eticamente scorretto. Per poi adottare pratiche fiscali punitive e/o che tendono a capovolgere l’onere della prova: vieni tassato non sulla base di quanto dichiari ma sulla base di una serie di indizi stabiliti dallo Stato e spetta a te dimostrare di non aver frodato il fisco. Ad un ritmo incalzante e con toni talvolta isterici, si moltiplicano inoltre in questi anni e mesi gravi accuse di sedicenti o presunte vittime (o gruppi di vittime) nei confronti di dirigenti del mondo dello spettacolo, della politica o dell’economia oppure contro aziende tacciate di aver provocato danni irreparabili alla salute, accuse che trasformano ipso facto gli accusati in colpevoli messi alla gogna prima che possa essere istruito un processo con tutte le garanzie che la giustizia moderna ha adottato a difesa degli imputati. L’allentamento del principio della presunzione di innocenza o di non colpevolezza si nota anche nell’ambito della giustizia, segnatamente quella esercitata dai tribunali per crimini di guerra o quella dei tribunali penali tout court. Penso a vicende emblematiche come il caso Tortora in Italia – il presentatore incriminato e bollato ingiustamente come mafioso dall’opinione pubblica ma anche da infelici dichiarazioni di giudici alla stampa, contro ogni evidenza accertata o prova – vicende che purtroppo non sono isolate ma indicano una deriva in atto.

Va notato che in tutti gli esempi summenzionati, il sistema odierno dei mass media contribuisce potentemente ad indebolire la presunzione di innocenza dell’imputato. Se il diritto di informazione rappresenta una conquista dei mass media che va a beneficio della società e va salvaguardato, è un fatto che oggi la grande maggioranza degli organi di informazione tende a vedere subito in ogni accusa un’accusa fondata, in ogni sedicente vittima una vera vittima e nell’accusato un colpevole. Il solo fatto di essere incolpato da qualcuno viene percepito – non solo dai mass media ma nell’opinione collettiva odierna – come una prova di colpevolezza. Ciò accade soprattutto in campi dove esiste in un dato momento una forte pressione dell’opinione pubblica o di un movimento nell’opinione pubblica, come nel caso dei processi per crimini di guerra, della lotta per l’emancipazione femminile o contro la pedofilia oppure della lotta contro aziende che utilizzano materiali potenzialmente inquinanti o insalubri o quella contro le infiltrazioni mafiose nelle attività economiche. In questi casi dove la volontà punitiva è impellente, la presunzione di innocenza appare spesso come un inutile ostacolo alla pena esemplare ed è manifesta l’insorgenza di riflessi che conducono dritto al “processo popolare e sommario”.

La tentazione della presunzione di colpevolezza al posto di quella di innocenza è espressione non solo della società dell’informazione (che spesso è disinformazione o manipolazione), bensì anche della cosiddetta società del rischio. La dottrina giuridica stessa nell’ambito del processo penale (dove si nota uno scivolamento dal diritto penale “dell’evento” verso il diritto penale “del rischio”) parla ormai della necessità di tener conto di un contratto sociale non solido ma debole: quello proprio delle odierne società del rischio – come le definisce Ulrich Beck – nelle quali svolge un ruolo centrale il concetto di insicurezza collettiva. In questo contesto, le presunte vittime hanno una voce in capitolo (e una forza di pressione) molto maggiore che in passato, anche grazie al megafono dei mass media, col rischio che – ad esempio nei processi che vedono coinvolte aziende – prenda piede una giustizia “dalla parte delle vittime”, che ritiene opportuno lanciare “segnali morali forti” che richiamano la tentazione dello Stato etico. Magari sorvolando frettolosamente sulla possibilità che all’origine di un’accusa ci siano grossi interessi materiali e la speranza di pingui risarcimenti. Senza voler minimizzare la sofferenza delle vittime reali, il dilemma della giustizia moderna fra l’assoluzione di un colpevole e la condanna di un innocente non può essere liquidato o annacquato cedendo alle urla della piazza. Tantomeno in un’epoca di forte incertezza e di populismo demagogico come quella presente, nella quale il contratto sociale è incrinato. È utile ricordare che la famosa frase di Cesare Beccaria «Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violato i patti, coi quali gli fu accordata» risponde alla volontà di por fine alla giustizia sommaria, all’inquisizione e alle gogne dei secoli precedenti. Dove non vorremmo ritornare. Ed è altrettanto utile ricordare il legame profondo che Montesquieu stabiliva fra la presunzione di innocenza e la libertà e la sicurezza sociale dei cittadini: «Quando l’innocenza dei cittadini non è garantita non lo è neppure la libertà». Non solo la libertà del singolo cittadino, ma della società intera. Qui sta, credo, il punto delicato e rilevante della questione. In gioco c’è la legittimazione del potere politico e giudiziario: il sentimento di sicurezza del cittadino e la forza del contratto sociale. Non credo che assecondare la voglia di processi popolari serva a rinsaldare il rapporto di fiducia dei cittadini verso le loro istituzioni e amministrazioni. Neppure l’inversione dell’onere della prova delle autorità fiscali di certi Paesi verso i propri contribuenti. Al contrario. Così facendo si propaga una cultura del sospetto che mina pericolosamente i rapporti istituzionali e sociali e favorisce le fratture che sono sotto gli occhi di tutti. Un rapporto recente dell’OCSE indica che il livello della fiducia dei cittadini verso le autorità è andato continuamente diminuendo dall’inizio del secolo. La media OCSE non supera il 40%. In controtendenza sta la Svizzera, dove il livello di fiducia è abbastanza stabile e sfiora ancora l’80%. Fino a quando? Una recente sentenza del Tribunale federale svizzero riguardante la consegna di dati di decine di migliaia di clienti di una banca all’autorità fiscale di un Paese europeo non lascia tranquilli.