Analogamente a quelle del millenarismo apocalittico medievale – sorto durante i flagelli della peste nera, di guerre e di catastrofi devastanti – le nuove evidenze morali del tribolato Terzo millennio sentenziano che l’umanità deve pentirsi dei propri peccati se si vuole salvare il mondo dal castigo di Dio. Non il Dio della Cristianità ma quello, oggi egemonico, della filosofia di Baruch Spinoza: ovvero il “Deus sive Natura” (Dio, vale a dire la Natura).
La nuova narrazione diffusa sentenzia che la Dea-Natura si sta vendicando delle nostre colpe e che occorre autoflagellarsi per salvarsi dall’Apocalisse. Nei santuari televisivi vanno in scena riti espiatori durante i quali c’è chi si abbandona a crisi di pianto per le ferite inferte dai nostri peccati alla Dea Natura. E il mantra dell’estinzione prossima ventura del genere umano, moltiplicato a dismisura e in modo scriteriato dalla catena massmediatica, sta producendo su un numero crescente di individui profondi stati di ansia depressiva. Senza sottovalutare la serietà delle sfide che comportano gli attuali cambiamenti climatici e l’insorgere di nuove guerre anche alle nostre frontiere, non penso che il catastrofismo apocalittico dilagante aiuti a trovare soluzioni responsabili. La paura irrazionale è sempre cattiva consigliera.
Contemporaneamente – a fare da controcanto a questa retorica dell’ineluttabile fine del mondo – è andata vieppiù imponendosi fin nel linguaggio comune la sentenza “la bellezza salverà il mondo”. Il detto va spiegato esattamente, per toglierlo da una vaga approssimazione intuitiva che rischia anch’essa di risolversi in un puro stato emotivo e per aprire ipotesi di speranza e di costruttiva assunzione di responsabilità personali di fronte alle sfide odierne. Il riferimento letterario è il famoso romanzo di Dostojevski, L’idiota, dove si narra dell’innocenza buona del principe Myskin, contro e malgrado un mondo di lupi. Nel romanzo, l’affermazione è tutt’altro che sdolcinata: il contesto è quello della provocazione sarcastica che l’ateo tormentato Ipolit rivolge all’”innocente” Myskin. «È vero, Principe, che una volta avete detto che la “bellezza salverà il mondo”? Signori – prese a gridare a tutti – il principe afferma che la bellezza salverà il mondo! Ed io affermo che idee così gioconde sono dovute al fatto che in questo momento egli è innamorato. Signori, il principe è innamorato, non appena è arrivato, me ne sono subito convinto. Non arrossite Principe: mi impietosite. Quale bellezza salverà il mondo?».
Il sarcasmo del nichilista Ipolit la dice lunga su quanto l’uomo moderno disprezzi chi non si abbandona al cinismo e coltiva una speranza di possibile redenzione. Un sarcasmo che tuttavia coglie bene il significato etimologico e storico-culturale della nozione di bellezza evocata da Dostojevski. Che non ha nulla a che vedere con un estetismo astratto e irresponsabile. Il termine dell’originale russo, “prekrasnyj”, indica infatti lo splendore della bellezza e della bontà insieme. Nel libro viene detto che il principe personifica la bellezza e la grandezza d’animo. Il prototipo di questa nozione di “bellezza” è d’altronde la formula ebraica di approvazione pronunciata da Dio nel libro della Creazione nei confronti della sua opera: “E Dio disse che era tôb, tôb me’ od”. La traduzione comune di questo brano della Genesi è “Dio vide che era cosa buona/molto buona”, ma in realtà il termine ebraico significa contemporaneamente “Dio vide che era una cosa bella/molto bella”. Il bello e il buono sono una cosa sola. Lo spiega Dostojevski stesso illustrando la genesi dell’Idiota: «Da tempo mi tormentava un’idea, ma avevo paura di farne un romanzo, perché è un’idea troppo difficile e non ci sono preparato, anche se è estremamente seducente e la amo. Quest’idea è raffigurare un uomo assolutamente buono. Niente, secondo me, può essere più difficile di questo, al giorno d’oggi soprattutto».
Difficile, a causa del cinismo e del nichilismo imperanti che irridono la bontà, ma anche perché quest’uomo buono e mite – benché innocente – è fragile, debole, come deboli saranno Zeno Cosini di Svevo e l’Uomo senza qualità di Musil, alla vigilia delle barbarie del Novecento. “Bellezza” è il termine usato da Dostojevski per indicare il manifestarsi della grandezza d’animo, della bontà, malgrado tutte le difficoltà. La stessa bontà insperata, intellettualmente illogica, che sarà protagonista, quasi un secolo dopo l’Idiota, in Vita e Destino di Vassilji Grossmann, il grande romanzo sulla seconda guerra mondiale che denunciò i campi di sterminio nazisti e la barbarie contro gli ebrei e nel contempo i gulag sovietici, i crimini perpetrati dal sistema di potere della Russia comunista che Stalin perfeziona e incarna. La domanda sulla bellezza/bontà e la salvezza del mondo osa sollevare la questione di un possibile riscatto del mondo, della sua liberazione dal male.
Ma cosa può la letteratura contro i mali del mondo e le derive del pianeta e per affrontare le sfide complesse di una società che evolve ad un ritmo tecnologico vertiginoso? Il filosofo René Girard e lo scrittore Milan Kundera affermano che la grande letteratura romanzesca occidentale – da Cervantes e Rabelais a Dostojevski, Stendhal e Proust… – coglie la verità delle cose più delle illusioni romantiche e delle ideologie politiche e scientiste che dominano l’età moderna e postmoderna. In un’epoca amnesica, in cui la letteratura è considerata una merce di svago come un’altra, se non addirittura quantité négligeable, appare assai difficile rompere la cappa di nichilismo e di cinismo dominanti e lasciar affiorare ipotesi di bellezza o di bontà in grado di incidere positivamente sui destini di un mondo confrontato con sfide formidabili, come nuovi conflitti armati fra superpotenze, i cambiamenti climatici, la rivoluzione digitale e l’intelligenza artificiale.
Ma se il problema numero uno posto da queste sfide epocali è la coscienza e la responsabilità personale e collettiva, allora la grande letteratura appare uno strumento prezioso e essenziale per poter scegliere fra il bene e il male. In gioco ci sono i destini degli esseri umani e del mondo intero. Un quesito a fortiori fondamentale se si considerano i rischi di quella matematizzazione della realtà che il filosofo Edmund Husserl indica come il pericolo principale dell’evoluzione delle scienze occidentali. Ovvero il divorzio della scienza dal “mondo della vita”: la riduzione del “mondo della vita” – nel quale gli esseri umani e i loro bisogni e diritti essenziali sono centrali e in cui bellezza e bontà possono manifestarsi e incidere in modo determinante – ad un mero, anonimo, modello algebrico.