Aprile 2004, eletta in Consiglio comunale a Rovio, marzo 2024 in Consiglio nazionale: Greta Gysin, che bilancio può trarre di questi suoi vent’anni esatti di politica?

«Sono stati anni intensi e di grandi cambiamenti, con un bilancio senz’altro positivo: il partito è cresciuto molto, ad ogni livello, e l’ecologia oggi ha un’altra importanza rispetto a vent’anni fa. Ora la sfida sta nel riuscire a tradurre la crescita elettorale in successi politici. Abbiamo fatto passi avanti anche in questo senso, ma considerata l’urgenza della crisi ambientale e climatica decisamente non abbastanza».

La sua più grande soddisfazione?

«A livello di contenuti, sicuramente l’approvazione dell’iniziativa popolare per l’introduzione del salario minimo in Ticino. Pur con i limiti della Legge attuale, se in Ticino abbiamo un salario minimo è grazie all’iniziativa popolare che senza il mio input e il mio contributo non ci sarebbe stata. Personalmente, il successo più grande è stata la rielezione in Consiglio nazionale lo scorso autunno. In un periodo poco favorevole al mio partito, la conferma del seggio al Nazionale era tutt’altro che scontata. Essere riuscita nonostante tutto a creare l’energia e l’entusiasmo necessario per migliorare il risultato delle elezioni cantonali e quindi confermare il seggio, è una bella soddisfazione personale».

E la sua più grande delusione?

«Non essere riuscita a evitare lo strappo nel partito, che ha portato poi alla mia decisione di non ricandidarmi per il Gran Consiglio nel 2015. Ho fatto quello che potevo finché potevo, ma non sono riuscita a tenere vivo il dialogo interno. Ancora oggi la sezione cantonale risente dei danni creati in quegli anni».

Lei ha passato la sua giovinezza soprattutto a far politica. Mai avuto il rimpianto o il desiderio di avere una giovinezza più spensierata?

«La politica è sempre stata passione, e impegnarmi in questo ambito fin da giovane è scelta naturale. Ho comunque avuto in gioventù (e ho tuttora!) i miei momenti spensierati, per cui no, sono fiera di quello che ho fatto e non ho nessun rimpianto, né mi mancano o mi sono mancate altre cose. È però vero che il mio percorso professionale è particolare, perché anche se continuiamo ad illuderci che in Svizzera la politica sia di milizia, in realtà assorbe buona parte del nostro tempo relegando il resto delle nostre occupazioni al ruolo di attività accessoria».

La politica in Svizzera non è più di milizia?

«A livello federale è sempre più difficile, perché i dossier sono sempre di più e sempre più complessi. L’ostinazione a voler difendere l’illusione del parlamento di milizia, è che sia l’amministrazione che le lobby hanno sempre più potere. Se vogliamo che la politica torni ad avere un ruolo centrale nella conduzione del nostro Paese e possa decidere la direzione verso cui portarlo, allora bisogna innanzitutto riconoscere che la società è cambiata, che la politica ha altri ritmi e che i dossier sono decisamente più complessi rispetto al passato. Il parlamento ha bisogno di più e altri mezzi, di questo sono profondamente convinta».

Mai avuto l’impressione di essere stata svantaggiata come donna?

«Dipende. In questo momento, ad esempio, visto che sono l’unica donna della deputazione ticinese rispetto ai miei colleghi uomini godo di maggiore visibilità; in generale tuttavia una donna che opera in ambiti tradizionalmente maschili, e la politica è senza dubbio uno di questi, fa più fatica a farsi accettare e prendere sul serio, per cui deve sempre dimostrare di saper lavorare bene e di riuscire a formulare dei progetti sostenendoli e portandoli avanti con cognizione di causa. Competenza e capacità insomma a noi donne non vengono riconosciute a prescindere, come invece spesso avviene per gli uomini, ma dobbiamo compiere uno sforzo maggiore. Da giovane donna è stato ancora peggio, da giovane donna di sinistra poi…».

Esiste secondo Lei una “via femminile” alla politica, un approccio e/o una lettura differente tra uomini e donne alla realtà e alla sua interpretazione?

«Mi rendo conto del rischio di generalizzare rispondendo a questa domanda, ciononostante mi sento di dire che tendenzialmente le donne fanno una politica più attenta ai bisogni e ai diritti del prossimo, quindi una politica più sociale e attenta all’ambiente. Ma ancora più che nei contenuti, quello che cambia è l’approccio ai dossier e ai dibattiti. A iniziare dalla preparazione – proprio per quanto detto prima le donne di solito studiano in modo più approfondito rispetto agli uomini, che invece fanno meno fatica a prendere posizione senza una conoscenza approfondita delle tematiche».

Consiglio comunale, Gran Consiglio, Consiglio nazionale sono i tradizionali gradini del “cursus honorum” della politica elvetica. Tralasciando il primo, che differenza ha trovato tra gli altri?

«Anzitutto che in Consiglio nazionale, dove i tempi e gli spazi di discussione sono molto più definiti, si perde molto meno tempo rispetto al Gran Consiglio. Spesso, inoltre, un oggetto arriva in commissione, lo si discute una volta e poi in aula direttamente nella sessione seguente; a Bellinzona invece i messaggi governativi arrivano in commissione e non di rado lì rimangono molto, troppo a lungo. Se il Gran Consiglio si desse un po’ più di struttura guadagnerebbe in efficienza, facendo molto di più in meno tempo. E – oso dire – meglio, perché anche la qualità dei dibattitti, del dialogo politico e quindi del risultato parlamentare ne guadagnerebbe».

Vent’anni di politica verde: è cambiato qualcosa in questo lasso di tempo?
«È cambiata molto la percezione che la popolazione ha verso i temi ecologici e le persone che li portano avanti in politica: oggi non recepisco più così fortemente i pregiudizi e i preconcetti di una volta. Inoltre vent’anni fa eravamo in pochi e un partito davvero piccolo, oggi siamo molti di più e il partito si è ingrandito e si è dato strutture adeguate. Una volta eravamo una specie rara, oggi invece siamo una presenza importante nell’ecosistema politico svizzero”. In questi anni l’ultima generazione di attivisti ecologisti si è fatta notare soprattutto per gesti clamorosi e scioccanti, come imbrattare quadri nei musei o incollarsi sulle strade».

Come giudica questa tendenza?

«La carica dell’attivismo, e ad esso legata la disubbidienza civile, sono spesso direttamente proporzionali alla gravità e all’urgenza delle tematiche che affronta. Pensiamo alle proteste del mondo agricolo delle scorse settimane: il grande interesse della categoria e l’urgenza delle misure ha portato a blocchi stradali che in confronto quelli degli attivisti per il clima fanno sorridere… In ogni caso l’attivismo è una cosa, la politica un’altra. Io ho scelto da sempre quest’ultima via».

Una decina di anni fa aveva dichiarato che la sfida principale dei Verdi sarebbe stata appunto quella di sganciarsi da tutti gli stereotipi di cui ancora soffrivano. Sfida riuscita?
«Esiste e credo esisterà sempre una fetta di popolazione pregiudizievolmente non interessata a sentire o ad approfondire certe tematiche; tuttavia credo che la consapevolezza ambientale nella maggioranza della popolazione sia aumentata, per cui conseguentemente che pregiudizi e stereotipi siano diminuiti. Di riflesso anche l’economia cerca sempre più di ridurre il proprio impatto. Oggi non si trovano più molte persone che negano l’esistenza di problemi ambientali, anche se purtroppo questo non ci porta ancora ad adottare le misure necessarie. La presa di coscienza è comunque il primo passo per farlo».

Vi considerate dunque, oggi come allora, un’avanguardia?

«In effetti sì. Il mio partito è stato un precursore in diversi ambiti, non solo ambientali ma anche sociali. Ad esempio, eravamo stati i primi a proporre il matrimonio per tutti, già negli anni ‘90; allora i tempi non erano maturi e l’atto parlamentare fu bocciato, trent’anni dopo però la maggioranza della popolazione svizzera (64,1%, ndr.) ha accettato questa proposta, per cui il matrimonio per tutti oggi è realtà. Sui temi ambientali è la stessa cosa: oggi si fa quello che i Verdi chiedevano già decenni fa. Se la politica avesse agito allora, oggi non saremmo così vulnerabili. Spesso però certe proposte hanno bisogno di tempo per maturare e trovare la strada nella coscienza delle persone. È un peccato, ma è così».

Il cosiddetto “green deal” tuttavia spesso implica vincoli e imposizioni che ne rendono l’accettazione e di conseguenza l’attuazione problematica…

«È un dato di fatto che la consapevolezza di un problema non porta necessariamente a nuovi e più virtuosi comportamenti. Facciamo un esempio: non credo ci sia qualcuno oggi che neghi il problema dell’inquinamento dell’aria nel Mendrisiotto; quando tuttavia si tratta di decidere in che modo intervenire per ridurre il traffico, emergono delle resistenze. La nostra difficoltà come ecologisti sta proprio qui, nel convincere le persone che si possono cambiare le cose e i propri comportamenti senza grandi rinunce e senza che la nostra qualità di vita sia intaccata».

Stando a un recente sondaggio gli svizzeri credono di vivere in modo sostenibile, anche se in realtà non è così. Come si fa a convincerli a comportarsi in modo più ecologicamente corretto?

«Il cambiamento deve avvenire passo dopo passo; pensare di fare tutto in maniera diversa e pressoché perfetta da un giorno all’altro è destinarsi al fallimento e alla delusione. Non conosco nessuno, neppure l’ecologista più perfetto (e io di certo non lo sono) che ci sia riuscito. Per prima cosa è necessario riflettere e analizzare le proprie azioni e le proprie abitudini, poi iniziare dalle piccole cose. Può essere un inizio riflettere criticamente sui propri consumi; si parla molto di mobilità e alimentazione, ma meno di questo aspetto, che è però altrettanto importante: le nostre case e i nostri armadi sono colme di oggetti che abbiamo acquistato e che in realtà sono superflui ma hanno un impatto ambientale nella produzione. Dunque una cosa molto semplice che possiamo fare prima di comperare qualsiasi cosa, è chiederci se davvero l’abbiamo bisogno, oppure se non possiamo recuperarla altrimenti facendocela prestare da qualcuno o trovandola di seconda mano: non ne risentirà la nostra qualità di vita, ma in compenso se ne gioveranno il nostro ambiente e le nostre finanze. Peraltro quello della riduzione del consumo superfluo è uno degli ambiti in cui, se ci si comporta in maniera virtuosa dal punto di vista ambientale, si risparmia».

È pur sempre una diminuzione dei consumi, ossia una decrescita. Magari anche felice ma pur sempre tale, non trova?

«Non necessariamente. Chi non vuole ridurre il proprio impatto ambientale, potrebbe consumare in ambiti più sostenibili. Ad esempio dall’abbigliamento, uno dei settori a maggiore spreco e impatto ambientale, alla ristorazione: se al posto di acquistare l’ennesimo paio di jeans, spendessimo quei soldi per andare a cena in un ristorante, si consuma in un settore a minore impatto ambientale. Allo stesso tempo si sostiene anche l’economia locale».

Vent’anni fa la prima elezione, dopo vent’anni in Consiglio nazionale, fra vent’anni come si immagina?

«In realtà non mi immagino affatto. La mia esperienza mi porta a dire le cose succedono più spesso per caso che non perché siano state accuratamente pianificate. Preferisco quindi concentrarmi sul presente, e fare bene il lavoro che l’elettorato mi ha chiamata a fare. Poi affronterò passo dopo passo ogni cosa, alle prossime elezioni nel 2027 come nel 2044. Una cosa è certa: per fare politica servono passione e visioni. Il giorno in cui mi renderò conto di non averne più a sufficienza, tornerò a concentrarmi su altre cose».