Capita a tutti noi di pensare di conoscere qualcuno, ma nella maggior parte dei casi non è così… le persone nascondono vite molto più complesse di quello che all’apparenza può sembrare. Una premessa d’obbligo per questa intervista molto speciale a Luca Pedrotti, anche perché, oltre ad essere un personaggio conosciuto a livello svizzero, è un amico. La sua storia personale è profonda, fatta di sacrifici e anche di sconfitte.

Ho letto il lavoro di diploma di tua nipote Lisa. È incentrato su di te perché per lei sei un esempio da seguire e, leggendolo, devo dire che sono rimasta colpita dalla tua sincerità. Penso a quando racconti la tua vita d’attaccante alla ricerca di quel goal che più lo desideri più ti sfugge…

«È la vita degli sportivi, ma non è sempre facile accettare le critiche e non è per nulla semplice affrontare le pressioni di un allenatore e di un’intera squadra. Però voglio sottolineare che, quando fai qualcosa con tanta determinazione, impari a gestire anche i momenti difficili. Per me il calcio è stato un grande amore… ricordo ancora quando da bambino passavo ore davanti al muro di casa a prendere a calci il pallone oppure quando mia madre mi rimproverava per avere rovinato l’ennesimo paio di scarpe perché non la smettevo di colpire ogni sasso che incrociavo per strada».

Capisco che la passione sia un elemento indispensabile, ma come si sopravvive ai giornalisti che ti prendono di mira… al dover a tutti i costi segnare?

«È il destino dell’attaccante nel mondo del calcio quando sei a certi livelli. Ovunque abbia giocato (a Chiasso, Lugano, Grasshoppers e a Locarno) le aspettative su di me erano elevate. Tutto bene se facevo goal, ma quando – malgrado la mia volontà e gli allenamenti – non mettevo in rete un pallone, frustrazione e critiche diventavano sempre più grandi. Ma è proprio in questi casi che devi sapere rimetterti in gioco, fare affidamento solo sulle tue forze e non farti sopraffare dalle pressioni. Rialzarti dalla sconfitta più forte di prima, e continuare con fiducia a credere in te stesso».

Hai smesso di giocare perché le pressioni erano diventate troppe? In fondo avevi ancora del potenziale quando hai deciso di lasciare il calcio…

«Sono sincero: a un certo punto della mia carriera ho capito che il calcio non mi bastava più, sentivo di avere realizzato un sogno e avevo voglia di preparare il mio futuro lontano dai campi da gioco».

Scusa la curiosità, ma questa domanda devo fartela, guadagnavi bene?

(Ride di gusto) «Erano altri tempi, ma si trattava di cifre importanti. Ricordo la prima volta che ho portato a casa una busta da professionista: quando mio papà ne ha visto il contenuto me ne ha dette quattro, era incredulo. Comunque è anche grazie ai miei genitori che ho potuto lasciare il professionismo. La mia famiglia ha sempre rispettato il mio sogno di voler diventare un calciatore, ma parallelamente mi ha sempre motivato a continuare gli studi. Quando ho deciso di diventare semiprofessionista e sono rientrato a giocare in Ticino, grazie al diploma della Scuola Superiore di Commercio di Bellinzona ho trovato un posto di lavoro presso UBS Locarno. All’inizio lavoravo due ore al giorno (oggi sarebbe impensabile) poi qualcuno notò le mie qualità. Sì, la mia carriera è iniziata proprio così: lavorando due ore al giorno presso quella che era la cassa titoli, dove allora i clienti si recavano per incassare le cedole delle obbligazioni».

E ora sono 28 anni che sei in UBS, sei diventato Direttore regionale per il Ticino, sei stato scelto dalla Direzione generale come uno dei 100 Group Managing Director di tutto il Gruppo UBS, una carriera che sembra più cinematografica che reale…

«Dall’esterno potrebbe sembrare così, in effetti. Ma ho anche fatto molti sacrifici e avuto la fortuna di trovare superiori che hanno saputo credere in me e ai quali mi sono ispirato. Ho un lavoro stimolante, cui mi sono veramente appassionato ricoprendo negli anni diversi ruoli manageriali. Ho iniziato dal basso, non me ne vergogno, ma poi mi é stata data l’occasione di seguire una formazione interna e da quel momento la mia carriera professionale ha preso una direzione più definita. La volontà di continuare a sviluppare le mie competenze è stata una costante e a 37 anni ero tra i più giovani Managing Director di tutta la Svizzera (soddisfatto). In questi anni ho viaggiato molto, lavorato su vari mercati e vissuto tante esperienze, utili poi quando sono stato richiamato in Ticino per la posizione che occupo attualmente».

Eppure la brillante carriera di Luca Pedrotti è nata anche da una importante ‘sconfitta’ quando il suo ruolo venne meno a seguito dell’integrazione di due settori della Divisione dove operava. Luca Pedrotti ricorda bene quel giorno, una doccia gelata che non si aspettava. Poi l’affetto di sua moglie, la vicinanza di amici sinceri e una telefonata che lo richiamava a mettersi in gioco, in Medio Oriente e Africa, lontano dalla sua famiglia.

 

Tu sai cosa vuol dire perdere il posto di lavoro e forse per questo affronti il tema dei tagli, dei ridimensionamenti, inevitabili nelle grandi strutture, con grande premura…

«Dal punto di vista emotivo è forse una delle attività più difficili da svolgere, ma a volte è necessaria per poter salvare altri posti di lavoro o per permettere all’organizzazione di strutturarsi al meglio sul lungo termine. Sono dei processi dolorosi, che cerco di affrontare in modo razionale, ma nel rispetto delle persone toccate, offrendo loro supporto psicologico e anche pratico, magari cercando delle alternative all’interno o fuori dall’azienda».

Ti è già capitato che qualcuno si arrabbiasse con te o ti affrontasse personalmente?

«No, non mi è mai successo. Per carità qualcuno si sarà anche arrabbiato, ma nessun caso grave. Forse anche perché se le persone si sentono rispettate… la comunicazione diventa meno sofferente».

Colpa, si fa per dire, della digitalizzazione, delle nuove tecnologie, tutti fattori che continueranno e sono inarrestabili…

«L’avvento della “tech-info” (Information Technology) durante gli ultimi anni ha permesso di combinare avanzate competenze tecnologiche con i settori di tipo tradizionale. Più recentemente vi è stata un’ulteriore accelerazione di questa tendenza e il fenomeno si è esteso a nuovi campi dal forte carattere informativo: istruzione, sanità e non da ultimo anche il settore finanziario e bancario. La digitalizzazione di prodotti e servizi finanziari, la “FinTech”, è una realtà complessa e in forte espansione, che sfrutta la convergenza delle più avanzate tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Siamo di fronte all’alba di una nuova era, un cambiamento di tipo epocale che mette a dura prova la nostra capacità di adattamento e che avrà un impatto decisivo sulle nostre più profonde abitudini. Stare al passo è tuttavia indispensabile per sopravvivere nel mondo del lavoro: siamo chiamati ad essere sempre più flessibili e a gestire nuovi ritmi, serrati e stressanti. Una banca come la nostra, con 150 anni di storia alle spalle, deve essere in grado di cavalcare l’onda dell’innovazione, per migliorare velocità e qualità dei servizi e soddisfare una clientela sempre più esigente e partecipativa. Ma il processo di digitalizzazione non coinvolge solo carte e documenti: si tratta anche e soprattutto della cultura dei nostri dipendenti. Bisogna prepararli al meglio a questo processo rivoluzionario, tenendo conto del fatto che ogni generazione affronta i cambiamenti con tempi diversi… questa, a livello manageriale, è la vera grande sfida».

Tu hai un team molto affiatato e cerchi di essere sempre presente, di farti vedere per capirci…

«Investo molto del mio tempo nelle persone, cerco di farlo con grande serietà, nel pieno rispetto dei miei valori e spronando tutti – giovani e meno – a crescere continuamente. In Ticino siamo quasi 800 collaboratori: chiaramente interagisco in maniera costante con il mio management team, però nel limite dei tanti impegni cerco di sfruttare ogni occasione per mostrare la mia vicinanza a tutti. Mi dicono spesso che parlo con il cuore (sorride), é vero, nel comunicare cerco sempre di essere realista e trasparente, parlo apertamente di sfide e difficoltà, dei momenti difficili da superare insieme, cercando però sempre di condividere le prospettive e la visione d’insieme».

Questo tuo modo di essere e di parlare lo utilizzi anche in pubblico. Non temi che questa tua emotività venga considerata una fragilità?

«Il rischio esiste: ogni tanto mi sento dire – in maniera spiritosa – che sono l’ultimo dei moicani (ride). Naturalmente le mie responsabilità mi impongono di essere anche deciso e razionale, ma nessuno mi può rimproverare di non comunicare apertamente. In fondo i traguardi professionali che ho ottenuto sono stati raggiunti con e attraverso le persone, lavorando insieme. Sono esigente con me stesso, e mi attendo sempre il massimo impegno da tutti i miei colleghi».

Qualche settimana fa è stata annunciata l’apertura di un nuovo centro sull’intelligenza artificiale UBS in Ticino, nella vostra sede di Suglio a Manno. Una bella sfida, anche perché c’erano altri Cantoni in lizza…

(Silenzio e soddisfazione) «Sono contento che mi chiedi del nuovo centro, anche perché si parla spesso di licenziamenti, ma in questo caso creeremo dei nuovi posti di lavoro. Chi avrebbe mai pensato, cinque anni fa, che UBS annunciasse l’assunzione di 80-100 ingegneri e ricercatori? Penso che questa sia la dimostrazione di quanto le cose stiano cambiando. Le nuove tecnologie ci permetteranno di liberare capacità e risorse che potranno essere investite in altri ambiti. Comprendo perfettamente il timore di alcuni collaboratori di perdere il lavoro, tuttavia questa evoluzione è inevitabile e va affrontata con serietà e coraggio: se la paura prevale non è possibile uscirne vincenti. Per taluni sarà difficile riciclarsi, ma sarà fondamentale la volontà di adattamento, il considerare che nell’arco della carriera professionale è possibile, e in alcuni casi necessario, cambiare posto di lavoro. È finita l’epoca in cui si entrava in banca e la carriera proseguiva in maniera lineare fino al pensionamento. I giovani dovranno saper mostrare maggiore mobilità, anche all’interno della stessa azienda, e quindi avere un’adattabilità e una flessibilità superiori rispetto alle generazioni precedenti».

Immaginavi che saresti arrivato dove sei oggi?

«Oltre al sogno del calciatore, nel cassetto c’era anche il mio desiderio di lavorare in banca. Ma quando ho iniziato la mia carriera non avrei mai immaginato di diventare Group Managing Director e responsabile di UBS Ticino. Non ho mai lavorato unicamente in funzione della carriera. Ricordo ancora la prima volta che mi diedero un incarico importante e lo comunicai ai miei genitori. Mio padre mi ascoltò, inizialmente non disse niente e poco dopo mi mise la mano sulla spalla, dandomi un prezioso consiglio: “Cerca solo di fare bene il tuo lavoro”. Tutte le volte che mi trovo davanti ad una nuova sfida l’affronto con tanto entusiasmo, con determinazione, cercando, come mi disse mio padre, di svolgere al meglio il mio lavoro».

So che hai un legame particolare con tuo fratello e con le tue due nipoti: sei molto attaccato alla famiglia?

«Sì, perché ho avuto la fortuna di avere una famiglia straordinaria, che mi ha insegnato i veri valori. Quando studiavo a Bellinzona i miei genitori mi davano venti franchi alla settimana, che dovevano bastarmi per i pasti (pausa). È in questo modo che ho imparato il valore dei soldi e che nella vita bisogna sempre ricordarsi da dove si viene».

Quello che dici è molto importante, anche perché oggi puoi permetterti una vita agiata…

«Non lo nascondo, ma i miei amici sono ancora quelli di una volta. Sono consapevole di essere fortunato, ma non esagero mai, non ne approfitto, chi mi conosce sa che sono rimasto quello di sempre. Capita purtroppo di scontrarsi con l’invidia, ma con l’età ho imparato che le persone importanti sono quelle capaci di starti vicino anche quando perdi tutto».

Hai 53 anni, un lavoro che ti piace, ti senti in un certo modo arrivato o hai altri progetti, sogni?

«Non mi pongo obiettivi a lungo termine, la mia carriera ha avuto parecchie svolte importanti. Stiamo vivendo cambiamenti epocali e forse è proprio per questo motivo che non penso al prossimo obiettivo carrieristico. Ho ancora così tanto da fare e da dare, vorrei poter aiutare la struttura a prepararsi per le sfide future e trasmettere a chi verrà dopo di me tutto quello che ho imparato, che a mia volta ho appreso da altri. Sono entrato in una fase della mia vita in cui sento molto questa responsabilità sociale, soprattutto perché sono legato al mio territorio, a dove sono nato e a dove passerò la mia vecchiaia: sento di dovere restituire in qualche modo quello che ho ricevuto».

Sei sposato, sportivo, amante degli animali, parliamo un po’ della tua vita privata…

«Sono sposato da quasi undici anni, con una donna straordinaria che mi ha dato tanta serenità ed equilibrio soprattutto durante questi ultimi anni perché, non lo nascondo, le tensioni che si vivono nel mondo del lavoro sono elevate. Avere a fianco una compagna di vita, che ti aiuta a gestire la tua quotidianità è veramente molto importante. Purtroppo non abbiamo avuto figli insieme, ma siamo stati ricambiati da tante altre gioie. Inoltre, cinque anni fa, nella nostra vita è arrivata Cocò, una cagnolina fantastica, che riempie moltissimi spazi nella nostra vita di coppia».

Se penso a quanto tu sia affezionato a Cocò e quello che invece pensavi prima dei cani…

«Ammetto che ho dovuto ricredermi, ho avuto un cane quando ero piccolo, ma non ero abbastanza grande per capire quanto un animale ti possa dare. Quando è arrivata Cocò… avevo ancora dei pregiudizi, che però ora sono stati tutti abbondantemente affossati. Avere un cane è certamente un impegno, ma anche una gioia incredibile che ti ripaga ampiamente».

Da ex sportivo professionista continui a fare sport?

«Faccio molto sport durante il fine settimana, per me è una valvola di sfogo, mi riequilibra. Negli anni sportivi ho imparato a conoscere il mio corpo, capisco i segnali che mi manda e cerco di compensare. Poi, non lo posso nascondere, sono una persona a cui piace competere, ho bisogno di sfide costanti, anche con me stesso. C’è infatti una salita che faccio ogni anno in bicicletta, la cui cima devo riuscire a raggiungere stando sotto un certo lasso di tempo. È più forte di me, è un punto di riferimento».

E quando non ce la farai più?

«Cambierò salita e ne cercherò una più corta (ridiamo). Quello che cerco di dire è che nella vita ho sempre bisogno di una sfida, questo spirito di sana competizione è parte di me. Ero così già da piccolo: quando giocavamo a boccette davanti alla chiesa non volevo mai perdere».

Hai paura di invecchiare?

«È vero che se potessi fermare il tempo lo fermerei ad oggi, ma questo lo pensavo già 10 anni fa. Affronterò i prossimi vent’anni sfruttando al massimo la mia vita, viaggiando molto, incontrando mondi diversi. Ho sete di esperienza, non ho paura del tempo che passa».

Del tuo viaggiare molto, il desiderio è quello di continuare a farlo, un conoscere e avvicinare altre culture, cosa pensi delle paure che suscitano questi grandi flussi di immigrazione?

«Ci spaventano perché non siamo abituati, in realtà il confronto tra le diverse culture è un’occasione di crescita, ma va correttamente canalizzato dalle autorità altrimenti rischia di generare inutili tensioni sociali. Quando mi occupavo del Medio Oriente e l’Africa avevo un management team composto da otto persone provenienti da nazioni diverse. Ci sedevamo al tavolo e nascevano discussioni e dibattiti straordinari, che non sono mai riuscito ad avere con membri di un gruppo della medesima cultura. Il confronto è un’esperienza di crescita ed è un processo inevitabile con cui la società è confrontata».

Interculturalità, nuove tecnologie, intelligenza artificiale, come vedi la piazza finanziaria ticinese tra dieci anni?

«Ci saranno sicuramente meno banche perché la fase di consolidamento non è ancora completamente terminata. Avremo un mondo bancario diverso. In futuro le banche dovranno concentrarsi su attività molto specifiche e dunque la massa critica diventerà un elemento fondamentale per gestire i costi e la qualità della prestazione. Sono convinto che dobbiamo lavorare molto sui giovani, sulle generazioni future, alzando l’asticella della formazione. Dobbiamo essere in grado di offrire una qualità all’avanguardia, non solo per quanto concerne le competenze, ma anche i prodotti e i servizi, perché il mondo attorno a noi sta cambiando molto velocemente».

Ma cosa cambierà concretamente? Perché continueremo ad andare in banca?

«Quello che cambierà sarà il modo di interagire con la banca, ma ricordiamoci che sarà sempre un business fatto di persone. Al di là dei processi tecnologici e di digitalizzazione, al centro ci sarà sempre il rapporto con gli esseri umani, le decisioni verranno sempre prese guardandosi negli occhi, seduti ad un tavolo, e di questo sono seriamente convinto. Il Ticino ha molto da offrire da questo punto di vista perché ha una tradizione importante che spesso sottovalutiamo, ma per nulla scontata all’estero. Viviamo in un paese economicamente, politicamente e socialmente molto valido, forte, sano e questi sono elementi che dobbiamo imparare a valorizzare molto bene».

Visto che stiamo parlando del lavoro di domani, dei giovani, terminiamo con la generazione futura, cosa dovrà fare per essere competitiva?

«Innanzitutto consiglio di studiare: è fondamentale essere preparati. Personalmente non ho mai smesso di imparare e ho completato la mia formazione con due master nell’ambito della finanza e del management, di cui uno negli Stati Uniti. È inoltre necessario seguire le proprie passioni: se vuoi avere successo nel mondo del lavoro devi amare quello che fai. Lo dico sempre ai miei ragazzi, se non siete felici di quello che fate cambiate lavoro, la vita è troppo breve per fare qualcosa che non vi piace. È importante avere dei sogni e cercare di realizzarli con passione. Parallelamente i bambini e i ragazzi d’oggi dovranno sviluppare capacità quali flessibilità e adattabilità e dovranno essere pronti a cambiare il proprio percorso professionale a 360 gradi. Queste caratteristiche saranno fondamentali per sopravvivere nel mondo del lavoro del futuro».

Non capita spesso di conoscere qualcuno che può dimostrare di aver realizzato i suoi sogni ed è per questo che vorrei che ogni ragazzo leggesse questa intervista, per capire quanto sia importante la volontà personale e il non arrendersi mai.