Come nasce la sua passione per l’arte?

«Già a scuola avevo il soprannome Pinsel, che significa pennello, perché mi piaceva disegnare e dipingere. La mia famiglia tuttavia non considerava per niente questa mia passione e inoltre nella nostra piccola città non esistevano scuole d’arte. Per questa ragione scelsero di farmi fare un apprendistato in una fabbrica per turbine».

Come nascono le sue sculture?

«Potrei dire che i miei lavori non nascono unicamente da uno studio del tronco né da una serie di disegni preparatori, ma dal confronto diretto con la materia nel suo presentarsi e offrirsi all’artista durante le fasi della lavorazione. Se è vero infatti che ogni blocco di legno nasconde una figura, la mia idea iniziale, il mio progetto dopo mesi si sviluppa e si concretizza nella misura in cui la materia me lo consente. Scolpire per me non significa modellare quanto piuttosto lavorare “in togliere”. Mi piace quasi assalire il legno per conferirgli una forma, infliggendo tagli e ferite con la motosega, utilizzata quale strumento funzionale a un’esigenza espressiva, a una necessità di contenuto. Intaglio il tronco d’albero rapidamente, con forza, sicurezza, eliminando il superfluo e solo durante questo processo esecutivo, l’immagine si svela. Infine ne sottolineo la forma, i tagli, le venature, le sfaccettature, le ombre cospargendo di pittura il legno, mentre altre volte lascio il colore del legno naturale.».

Dunque la sua chiave stilistica potrebbe essere definita sostanzialmente espressionista…

«Credo che nelle mie scultura emerga una matrice nordica, tedesca legata alle mie origini e a quel vasto ambito regionale fra Stoccarda ed il lago bodanico dove il mio lavoro si è andato sviluppando da vent’anni. Ma al tempo mi sono stabilito in Ticino, a sud delle Alpi, a partire dal 1970, guardando al mondo lombardo, un contesto che mi ha dato diversi riferimenti culturali storici che hanno profondamente influenzato. Fra questi riferimenti spicca la figura di Mario Sironi da cui ho appreso il senso della monumentalità ed una descrittività essenziale e di forte impatto. E ancora, dalla tradizione informale della seconda metà del XX secolo, mi piace citare figure quali Emilio Vedova: da qui le superfici pittoriche che nella sovrapposizione del colore sgocciolante sulla materia scolpita illuminano il segno inciso del legno e sottolineano la lettura delle inquietudini, delle paure, delle ansie della mia generazione a cavallo del nuovo millennio».

Non di rado i suoi monoliti vengono dipinti. Che significato ha questa scelta?

«Talvolta scelgo un colore unico per evidenziare gli spessori, le angolosità, il dimorfismo di un corpo. In altri casi tratto il legno come supporto sul quale intervengo con gli stessi violenti e provocatori accostamenti cromatici caratteristici delle mie tele, allo scopo di accentuarne la conflittualità e conferire a questi corpi e a queste teste un ulteriore livello di lettura».

Nascono così, in entrambi i casi, figure imponenti, dalla grande forza espressiva…

«La loro caratteristica è l’imminenza, l’emergere verso chi le guarda, in un rapporto che ha quasi abolito il distacco. Appaiono come alla ribalta dello spazio in un primo piano deciso, in una presenza perentoria. Sono figure drammatiche perché la materia resta viva, violata, ricca di fascinazione proprio perché non raggiunge l’assoluto della forma, ma è confrontata con l’angoscia dell’incompiuto».

Attualmente divide il suo lavoro tra gli atelier in Germania, e di Lugano. Come mai questa scelta?

«Non è tanto una scelta quanto una necessità. In Ticino risiede la mia numerosa famiglia e ormai mi sento a casa. Il mio lavoro invece ha le sue radici al nord e di conseguenza trova anche molto più riscontro Oltralpe».


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