Filippo Colombo ha trascorso fino a 20 ore alla settimana sui rulli montati nel suo garage con una speciale protezione al gomito sinistro in seguito a una rovinosa caduta sul tratto di pavé della foresta di Arenberg, in una Parigi-Roubaix, che doveva consacrarlo fenomeno del ciclismo su strada, oltre che campione nella mountain bike. Filippo Colombo, 25 anni, ha invece perso anche la possibilità di disputare i Mondiali dello scorso agosto in Scozia e la sua mente è già rivolta alle Olimpiadi di Parigi 2024, alle quali non vuole assolutamente mancare. «In questi momenti difficili, in cui la mia ragazza Carlotta e i miei genitori Andrea e Lorenza mi sono stati sempre vicini, ho imparato ad apprezzare l’imprevedibilità dello sport e della vita. Anche una giornata di brutto tempo riserva sempre un raggio di sole, il principale alleato di un ciclista». La ritrovata salute dopo tre mesi di nebulosa navigazione è la nuova America di Colombo.

© Nick Muzik

Il mondo del ciclismo mondiale è stato in apprensione per la tua caduta alla Parigi-Roubaix 2023 e ancora oggi le immagini televisive di quella domenica 9 aprile rievocano un senso di sgomento. Come va il tuo gomito?

«Decisamente meglio, la frattura multipla è stata complicata e dolorosa. Ho lavorato molto per tornare ad allenarmi, perché voglio qualificarmi per le Olimpiadi del prossimo anno a Parigi. È una vera e propria impresa, perché i miei due avversari diretti per i soli due posti disponibili si chiamano Nino Schurter e Mathias Flückiger, ma questo percorso per superare l’infortunio mi aiuterà a raggiungere lo straordinario obiettivo dei Giochi».

Cosa è successo esattamente nel temibile tratto di pavé della foresta di Arenberg?

«Ho percorso e ripercorso mentalmente l’incidente: non ho rimproveri per nessuno. Mi sono ritrovato per terra ad alta velocità senza che avessi il tempo di reagire. È la realtà di noi ciclisti in una disciplina a rischio, in cui siamo confrontati talvolta con situazione estreme, come è stato il caso di Gino Mäder nella discesa dell’Albula il 15 giugno scorso al Tour de Suisse, in cui ha perso la vita a 25 anni, alla mia stessa età. Per questo io mi posso ritenere fortunato, oggi sono di nuovo in sella a godermi le emozioni che mi regala ogni giorno questo sport formidabile che adesso più di prima più riesco ad apprezzare fino in fondo».

Grazie a una speciale protezione eri tornato in sella, anche se non è bastato per essere convocato da Swiss Cycling tra i 130 atleti che hanno preso parte alle varie discipline dei Mondiali di ciclismo di Glasgow dell’agosto scorso…

«Ho provato in tutti modi di farcela, ho trascorso ore e ore in garage a pedalare sui rulli anche quando ero condizionato nei movimenti dalla delicata operazione a cui mi sono sottoposto il giorno di Pasquetta. Sono stati mesi intensi non soltanto sul piano sportivo, in cui mi sono concesso quelle cose che solitamente non riesco a fare. Ho letto, ho guardato qualche film e soprattutto ho trascorso del tempo con i miei amici. Sapevo che la mountain bike avrebbe sollecitato maggiormente il mio gomito, soprattutto in discesa, e ho accettato serenamente la decisione di Swiss Cycling di puntare su compagni di Nazionale fisicamente più pronti. I tanti messaggi di sostegno, tra i quali quelli dei miei idoli Nino Schurter e Vincenzo Nibali, hanno un valore speciale per me e sono il miglior incitamento per i prossimi traguardi internazionali».

Anche in sella alla bici tradizionale, con la maglia della Q36.5, hai dimostrato di saperci fare, in particolare nelle classiche del nord. Epica una tua fuga al Giro delle Fiandre di quest’anno, dove sei rimasto con otto compagni per 160 chilometri…

«Ne mancavano solo 35 al traguardo e a un certo punto ci abbiamo sperato. La squadra era molto contenta della mia prestazione, nel ciclismo la visibilità degli sponsor si ottiene proprio con questi tentativi. In Belgio c’è una bellissima cultura del nostro sport, le strade erano stracolme di appassionati che ci incitavano con grande entusiasmo. Un’esperienza che non dimenticherò mai».

Da cosa nasce questa capacità di saper correre sia su strada, sia in mountain bike?

«Dalla grande passione che ho per la due ruote. Per me è fondamentale per aprirmi a un mondo che mi ha sempre affascinato, anche se la mia vita sportiva la vedo saldamente legata alla MBT. È stata un’alternativa stimolante, ho provato a me stesso che posso pedalare in gruppo ad un ritmo molto sostenuto, nonostante nella mia specialità la tecnica resti fondamentale e vada sempre allenata, fra insidie in salita e soprattutto in discesa, frutto di allenamenti mirati».

Qual è la motivazione che ogni giorno ti spinge a salire in sella per macinare chilometri su chilometri?

«Divertirmi, sia in allenamento e soprattutto in gara. In ogni sport c’è la componente divertimento, altrimenti che sport sarebbe? Faccio in modo di ottimizzare tutto ciò che è ottimizzabile, senza lasciarmi influenzare da ciò che non è influenzabile, come ad esempio le condizioni meteo. Credo che i risultati in gara siano soltanto la conseguenza dell’impegno nelle sedute di allenamento. È quindi fondamentale essere consapevoli del lavoro svolto durante la preparazione per essere tranquilli il giorno della gara, curando nei minimi dettagli l’aspetto di una corretta alimentazione». 

Cosa ti piace fare oltre al ciclismo?

«Ho terminato gli studi di economia all’Usi di Lugano, e non escludo di fare anche il Master. Adoro la montagna, le camminate nell’alto Ticino d’estate e le pelli di foca in inverno in Valle Bedretto. Sono particolarmente interessato a tutti gli sport della neve, abbiamo un appartamento di famiglia in Engadina, che divido sovente con i miei fratelli Matteo (ingegnere civile di 29 anni) ed Elia (27), che in realtà è uno specialista di windsurf».

Sei cresciuto nella realtà nostrana del Velo Club Monte Tamaro e oggi ti alleni con i miti Nibali, Aru e Ulissi…

«Tante persone a me care mi hanno aiutato in questa crescita e ogni risultato lo desidero dedicare anche a loro. In particolare a Daniele Zucconi, che mi portava alle corse quando ero ancora un ragazzo. Sono questi veri appassionati, che macinano chilometri in macchina per il piacere di vederti felice pedalare nel gruppo, le persone che fanno bene allo sport e soprattutto ai giovani».

Lugano aspettava Filippo Colombo già nel 1996

Quando Museeuw scattò, praticamente tenuto coperto e lanciato da un’Italia «che non si amò», come la definì il grande battuto Gianni Bugno, solo l’idolo di casa Mauro Gianetti riuscì a stargli dietro. E ormai era troppo tardi per andare a riprenderli. Accadde al Mondiale di Lugano, che si correva su un percorso mosso, con la “salitella” della Crespera (neppure 2 km al 7.8% di pendenza media) che era l’asperità più tosta, in aggiunta alla “Diavola” che montava da Cornaredo verso Comano.

Fu il Mondiale del commovente abbraccio di Rocco Cattaneo al suo grande amico Mauro che sfiorò il titolo iridato nella storia del ciclismo per i colori rossocrociati, il quarto in assoluto dal 1927. Era una domenica di metà ottobre, il 13, e Filippo Colombo, fenomeno ticinese della mountain bike, nipote dell’immenso Rocco, fratello di sua madre Lorenza, sarebbe nato solo un anno dopo, sempre a Lugano, il 20 dicembre 1997. «Le imprese di Gianetti – sorride il biker di Bironico – sono state sicuramente fonte di ispirazione della mia passione per la due ruote, i racconti dei miei genitori mi affascinavano. In casa nostra, il ciclismo ci ha sempre entusiasmato».

Due volte campione del mondo nella staffetta a squadre di cross country di Cairnas 2017 e Lenzerheide 2018, e medaglia d’argento nel cross country short track ai Mondiali 2022 di Les Gets, Filippo Colombo punta a diventare il primo ciclista a regalare un titolo iridato al Ticino: «Sarebbe un sogno…».