Nel vicolo cieco in cui ci troviamo – di riarmo e guerre alimentate da dittatori o regimi autoritari, di nuovi nazionalismi e imperialismi, di conflitti commerciali e nuove povertà, di declino del diritto e rigurgito della legge della giungla – in cui le autorità politiche e le istituzioni hanno perso credibilità e autorevolezza, un Papa può forse essere punto di riferimento di coloro che chiedono pace e giustizia e incidere concretamente nella soluzione di alcuni dei problemi di questo terribile inizio del Ventunesimo secolo?
La domanda avrebbe suscitato sorriso se non indignazione presso i rivoluzionari e le élites che hanno costruito le basi della modernità e le hanno perfezionate, talvolta proprio contro la Chiesa cattolica quando è stata collusa con poteri politici liberticidi. D’altronde è nota la sarcastica risposta che diede Stalin durante la Conferenza di Yalta chiamata a dare un nuovo assetto all’Europa e al mondo dopo la sconfitta del nazifascismo: «Quante divisioni ha il Papa?». Così rispose il dittatore sovietico a chi gli aveva illustrato le aspettative e la visione di Papa Pio XII. Forse “Baffone” avrebbe dovuto essere meno strafottente.
Infatti – al di là della replica ironico-bonaria che Papa Pacelli avrebbe fatto in privato al momento della morte del dittatore nel 1953 («Adesso vedrà quante divisioni abbiamo lassù…») – un altro Papa, il polacco Karol Wojtyla, contribuì proprio al crollo del regime totalitario dell’URSS che Stalin aveva brutalmente costruito. Giovanni Paolo secondo non aveva divisioni blidate. Ma la forza di resilienza della cattolicità del popolo polacco e la tenace opposizione alla dittatura comunista del vasto movimento di Solidarnosc, che il suo viaggio in Polonia nel 1979 aveva suscitato ebbero un ruolo decisivo.
Un viaggio di importanza storica, cui fece seguito un’intensa politica di ricucitura della divisione fra i “due polmoni dell’Europa”, orientale e occidentale (che il Muro di Berlino ancora divideva), una delle idee portanti del suo pontificato, che regge l’Enciclica “Slavorum Apostoli”. L’elezione del polacco Karol Wojtyla al soglio di Pietro ebbe un ruolo geopolitico mondiale, che contribuì alla fine di una dittatura, della guerra fredda e dell’era di un bipolarismo basato sulla dissuasione nucleare, minaccia per il pianeta intero.
Sono passati pochi decenni e siamo ripiombati ai piedi della scala. Il nuovo ordine mondiale costruito dopo le due guerre mondiali per pacificare le relazioni politiche e commerciali internazionali sembra andato in frantumi. Papa Bergoglio ha parlato di cambio d’epoca, di “società dello scarto” e di una nuova “guerra mondiale a pezzi”. In un mondo in cui il potere si stava concentrando nelle mani di nuovi tiranni e megalomani, occorre riconoscere che un papa – chiamatosi programmaticamente col nome del poverello di Assisi, Francesco – è diventato riconosciuta autorità morale, ben al di là dei confini della Chiesa cattolica.
A dire il vero, Papa Francesco si è collocato, pur con la sua radicalità propria, in continuità con l’appello lanciato da Giovanni Paolo secondo proprio ad Assisi, in un incontro senza precedenti dei leader delle religioni mondiali, appello che ha delegittimato ogni tentativo di uso politico della religione come alibi o strumento per giustificare le guerre e che chiamava i fedeli di tutte le religioni ad assumersi la responsabilità della pace e della giustizia. E il successore di Wojtyla, Benedetto XV, rincarò l’invito sempre ad Assisi 25 anni dopo, affinché in un secolo che si apriva con brutali attentati le religioni non incoraggiassero il terrorismo: «Mai più violenza in nome di Dio! Mai più guerra! Mai più terrorismo! In nome di Dio, ogni religione porti sulla terra Giustizia e pace, perdono e vita, amore».
Il pontificato dello statunitense (e peruviano) Robert Francis Prevost, Leone XIV, ha preso avvio dove era terminato quello di Francesco, il giorno di Pasqua. Le sue prime parole pronunciate dalla loggia di San Pietro sono state infatti «La pace sia con tutti voi!», «La pace di Cristo Risorto». Nel suo primo discorso rivolto al Corpo diplomatico presso la Santa Sede ha precisato la consapevolezza di portare una responsabilità che va oltre quella della comunità cattolica. Val la pena di riprenderne i contenuti.
Anzitutto, l’importanza della diplomazia, fondamentale in tempi in cui nelle relazioni internazionali prevale la brutalità delle armi e la logica dei rapporti di forza. «La diplomazia della Santa sede è animata da un’urgenza pastorale volta non a cercare privilegi ma ad intensificare la sua missione evangelica a servizio dell’umanità. Richiama le coscienze, come ha fatto il mio venerato Predecessore, sempre attento al grido dei poveri, bisognosi ed emarginati, come alle sfide del nostro tempo, dalla salvaguardia del creato all’intelligenza artificiale».
Papa Leone XIV illustra «tre pilastri della missione della Chiesa: pace, giustizia e verità» (che, aggiunge, «non va mai disgiunta dalla carità»). La pace «non è mera assenza di conflitto» ma coinvolge ogni persona ed «esige un lavoro su sé stessi, si costruisce nel cuore, sradicando orgoglio e rivendicazioni e misurando il linguaggio: si può uccidere con le parole, non solo con le armi… In ciò è fondamentale il contributo che le religioni e il dialogo fra loro possono svolgere per favorire la pace». A partire da questo lavoro, «che tutti siamo chiamati a fare, si possono sradicare le premesse dei conflitti e di ogni distruttiva volontà di conquista. Ciò esige anche una sincera volontà di dialogo, animata dal desiderio di incontrarsi, non di scontrarsi. Occorre ridare respiro alla diplomazia multilaterale e alle istituzioni internazionali, volute e pensate per porre rimedio alle contese in seno alla Comunità internazionale».
La seconda parola chiave è giustizia. «Perseguire la pace esige di praticare la giustizia». Papa Prevost ha detto che ha scelto di chiamarsi Leone XIV pensando al papa della prima grande enciclica sociale, la Rerum novarum. La Chiesa «deve far sentire la propria voce dinanzi agli squilibri e alle ingiustizie, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre porre rimedio alle disparità globali, in cui opulenza e indigenza tracciano solchi profondi tra continenti, Paesi e dentro le società».
Il terzo pilastro è la verità. Papa Leone XIV sottolinea che «non si possono costruire relazioni veramente pacifiche, anche in seno alla Comunità internazionale, senza verità. Laddove le parole assumono connotati ambigui e ambivalenti e il mondo virtuale, con la sua mutata percezione del reale, prende il sopravvento senza controllo, è arduo costruire rapporti autentici, poiché vengono meno le premesse oggettive e reali della comunicazione. Da parte sua, la Chiesa non può mai esimersi dal dire la verità sull’uomo e sul mondo, ricorrendo quando necessario anche ad un linguaggio schietto, che può suscitare qualche iniziale incomprensione».
Il ruolo della Chiesa cattolica non è politico: è pastorale ma universale. In tempi in cui le Organizzazioni internazionali sono ignorate dalla volontà di potere e prevale la lotta per i propri interessi nazionali o imperiali, la Chiesa cattolica resta una voce e una presenza universale. Che può fare da contropotere pastorale a tutti gli imperi. Nel caso dello statunitense papa Prevost, può addirittura esserlo per chi si è autoconsacrato “lider maximo” degli USA e dell’Occidente. Un contropotere non privo delle sue profonde crisi interne e dei suoi limiti, certo. Ma che ci auguriamo possa essere giovevole.