Il 5 novembre scorso gli elettori e i Grandi elettori americani hanno segnalato la volontà inequivocabile di un cambiamento di politica in settori chiave: pugno di ferro verso l’immigrazione clandestina; priorità alla manodopera indigena e agli interessi nazionali; abbattimento della burocrazia statale e priorità alla libera iniziativa economica, segnatamente in settori economici a forte impatto innovativo e prioritari nella competizione mondiale del futuro.

L’appello al MAGA (Make America Great Again) di Donald Trump ha avuto un esito elettorale al di là di ogni previsione: i Repubblicani tornano al potere con una netta maggioranza sia al Senato che alla Camera, ciò che dà a Trump una legittimazione politica e un grande margine di azione per realizzare una svolta nei settori chiave della sua politica che i rapporti di forza durante il suo primo mandato non gli avevano permesso di fare.

L’ampiezza della vittoria di Trump è incredibile se si pensa che era politicamente morto dopo l’assalto a Capitol Hill e la cascata di accuse e condanne giudiziarie. Ma se oggi si ritrova in una tale posizione di forza, ciò è dovuto, più che a meriti propri, ai demeriti e alla miopia della vecchia nomenklatura liberal americana, arricchitasi con la globalizzazione e ormai imbolsita, incapace di cogliere la profonda frustrazione dei ceti popolari e la classe lavoratrice (i “blue collar”, non solo bianchi ma anche latinos e afroamericani), vittime degli effetti perversi della globalizzazione.

I mercati hanno brindato alla svolta; gli USA ne sono usciti (per ora) rafforzati anche agli occhi degli autocrati che dominano il nuovo disordine mondiale: Xi Jin Ping, Putin, Jong Un, Erdogan, Khamanei, Bin Salman… I quali ritrovano un leader occidentale che incute timore come loro e per questo viene da loro rispettato. Lupo non mangia lupo. Che questa nuova configurazione possa chiudere rapidamente i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente è ancora presto per dirlo. Ma l’epoca in cui gli USA di Clinton e Biden (Presidente del Senato sotto Clinton) volevano umiliare la Russia post sovietica riducendola a potenza regionale è conclusa.

E da diversi anni gli Stati Uniti non dipendono più dalle importazioni del petrolio mediorientale: sono diventati esportatori di gas di scisti. Non è un caso se durante il suo primo mandato Trump abbia promosso i cosiddetti Accordi di Abramo fra Israle e alcuni Paesi del Golfo (che l’Iran e Hamas temevano come la peste). L’Iran degli Ayatollah (in preda a contestazioni esterne e interne molto forti) ha molto da temere dall’America del nuovo Presidente Trump.

Quanto agli interessi degli Stati Uniti di Trump in Europa, essi sono ed erano già molto ridotti. Si ricorderà la visita del Presidente Trump in Germania, quando ad Angela Merkel che gli chiedeva più soldi americani per la difesa contro la Russia egli rispose poco candidamente che non capiva perché gli USA dovessero difendere l’Europa da Putin quando la Germania si era resa dipendente e ricattabile dalle forniture energetiche russe.

Nel nuovo contesto mondiale, con Donald Trump leader di un’America che vuole tornare grande, rimanere grande difendendo la supremazia del dollaro contro il tentativo della Cina e i suoi alleati di creare un contropotere economico-finanziario e vincendo (anche grazie a Musk) la sfida dell’egemonia tecnologica con Pechino, quale sarà il posto e la forza contrattuale dell’Europa?  Per citare il Manzoni nei Promessi Sposi, nel nuovo contesto geopolitico mondiale, l’Europa si presenta come “un vaso di terracotta, costretta a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”.

Solo un paio di decenni fa, l’Unione europea, economicamente forte grazie al mercato unico, alla spinta propulsiva della riunificazione della Germania e al tandem franco-tedesco, aveva sogni di gloria e si immaginava come terzo polo fra USA e Cina. Si vantava di essere la custode dei diritti umani e della svolta ecologica respingendo sdegnosamente l’idea di un Accordo transatlantico con l’America del capitalismo selvaggio e delle multinazionali insensibili alla protezione ambientale Quell’Europa si ritrova oggi politicamente fragilissima ed economicamente in ginocchio anzitutto perché la propria nomenklatura non ha preso sul serio – come in America – le ragioni delle classi lavoratrici (basti guardare chi ha stravinto le elezioni francesi: sovranisti e populisti di destra e di sinistra) e la necessità di trovare risposte concrete e concertate a un incontrollato afflusso migratorio.

In secondo luogo, i dirigenti politici europei hanno ignorato l’importanza di tre pilastri fondamentali per la forza di ogni paese – approviggionamento energetico proprio, materie prime e capacità di difesa autonoma – esternalizzandoli e consegnandosi nelle mani dei lupi, degli orsi, dei draghi (e degli odiati Yankees) che a parole criticavano per il mancato rispetto dei diritti umani e/o della protezione dell’ambiente.

L’Europa resta col cerino spento in mano per aver non aver fatto i conti con la realtà dei fatti e aver delegato ad altri compiti vitali non delegabili.

Non serve a molto dichiararsi i campioni della lotta contro i cambiamenti climatici sanciti dagli Accordi di Parigi per la riduzione dei gas serra se si chiudono le centrali nucleari anzitempo (che non producono CO2) per poi dover potenziare il carbone e mendicare al barbaro Putin il gas mancante. Come si è rivelata gravemenete controproducente la fuga in avanti unilaterale delle auto elettriche europee quando non si dispone di riserve di energia elettrica e semiconduttori sufficienti per sostenerla. Stabilendo rapporti privilegiati con la Cina (che ha la supremazia sulle materie prime per la transizione elettrica) se poi si è costretti ad alzare i dazi contro le auto elettriche cinesi per tentare di salvare il proprio comparto automobilistico in grave crisi.

L’Europa ha peccato di un diniego di realtà che oggi pesa sulla propria crisi economica. Ma la crisi politica è altrettanto grave. L’instabilità e la debolezza della legittimazione politica dei Governi dei Paesi dell’UE e in particolare di quelli più popolosi (a parte paradossalmente l’Italia, dove il Governo perdura da più di due anni) è flagrante. La Francia è in una situazione senza precedenti, dove il Presidente della Repubblica non solo non ha una maggioranza in Parlamento, ma fa governare un Governo fantoccio di impronta conservatrice che sta in piedi (si fa per dire) solo grazie alla rinuncia al veto da parte del Fronte nazionale di Le Pen e a dispetto delle accuse di tradimento degli elettori della sinistra estrema di Mélanchon.

In Spagna governa una coalizione capeggiata dal socialista Sanchez rabberciata per impedire al vincitore delle elezioni, il Partito Popolare conservatore di Feijòo, di guidare una coalizione di destra. Sanchez ha potuto costituire il suo governo solo grazie all’appoggio dei sette deputati indipendentisti di Puidgemont, già indagato per terrorismo, in cambio di un’amnistia per i separatisti catalani, annuncio di amnistia che ha spaccato il Paese. La Spagna è un Paese politicamente lacerato, come dimostrano anche le imponenti manifestazioni di piazza e le violente contestazioni a Re Felipe dopo le alluvioni di due mesi fa. La Polonia è guidata da un Governo Donald Tusk, che ha riunito una coalizione europeista di centro sinistra per contrastare i vincitori delle elezioni, il partito sovranista e conservatore di Jaroslaw Kaczinski che non è riuscito a riunire una coalizione di centro-destra.

Quanto alla Germania – già spaccata in due dopo i risultati delle elezioni nei Länder dell’ex Germania dell’Est dove la destra nazionalista ha stravinto – la coalizione comprendente socialisti, verdi e liberali guidata dal cancelliere socialista Scholz è saltata in aria dopo il licenziamento da parte del cancelliere del ministro delle finanze (e leader del partito liberale) Christian Lindner. Si va verso nuove elezioni in un un contesto politico ed economico tesissimo e da “fin de règne”. In Europa, i sogni di gloria sono svaniti. E con apprensione si teme che Donald Trump possa presto comunicare al vecchio e claudicante continente che alla propria difesa, d’ora in poi, dovrà pensarci da solo.