Chi ha definito i nuovi equilibri europei e mondiali dopo il secondo conflitto mondiale? Le potenze vincitrici. Nel febbraio del 1945, a Jalta in Crimea (sic), accanto al Presidente dell’Unione sovietica Giuseppe Stalin, sedevano il presidente degli Stati Uniti d’America Roosvelt e il premier del Regno Unito Churchill. Ambedue anglosassoni, ambedue atlantici. I rappresentanti dell’Europa continentale sconfitta erano assenti (con grande irritazione di De Gaulle). La spartizione dell’Europa continentale con Stalin è stata fatta dalle potenze atlantiche: dapprima concedendogli l’Europa dell’Est e poi – solo quattro anni dopo, nel 1949, spaventati dall’espansionismo dell’Impero sovietico – istituendo l’Alleanza militare atlantica della NATO schierata alle frontiere con l’URSS e i suoi vassalli. Dal punto di vista geopolitico, in Europa le cose sono chiare e non sono mutate nella sostanza da 70 anni.
L’Alleanza atlantica dominata dagli USA si è allargata progressivamente in Europa – e si sta allargando ancora in questi mesi di guerra integrando anche paesi membri dell’UE storicamente neutrali come la Svezia e la Finlandia -. Insomma, è evidente che gli Stati Uniti (cui siamo debitori per la liberazione dal nazifascismo tanto quanto siamo debitori alla Russia) sono venuti in Europa per restare. Lo sanno bene le cancellerie europee e in particolare quelle italiane succedutesi da 70 anni a questa parte. Non c’è stato e non c’è Governo italiano che possa essere insediato e possa durare senza dichiarare fedeltà agli Stati Uniti, garantire le basi militari NATO e USA sul territorio (e garantire gli interessi economici statunitensi, come insegna il Caso Mattei). Craxi osò interferire sulle basi di Sigonella e ne pagò lo scotto. Lo stesso Premier Massimo d’Alema (ex comunista formatosi a Mosca) nel 1999 non potè che dare il proprio avallo ai bombardamenti contro la Serbia (non autorizzati dall’ONU) degli aerei della NATO decollati dalle basi militari statunitensi di Aviano, nel Friuli. Un’operazione militare più che mai attuale, giacché il conflitto in Ucraina sta pericolosamente riaprendo nei Balcani ex comunisti le ferite degli Anni Novanta.
Dal punto di vista geopolitico e militare ma non solo, l’Europa è rimasta fino ad oggi – durante tutto l’iter che l’ha vista trasformarsi in Comunità europea, in Unione monetaria e in Unione europea (istituzionalmente ancora incompiuta) – in un rapporto di più o meno forte vassallaggio verso gli Stati Uniti d’America. Ha saputo attirare a sé per qualche decennio il recalcitrante Regno Unito – che non aveva firmato il Trattato di Roma e avrebbe invece voluto incorporare la CEE nell’Associazione europea di libero scambio – ma la Brexit ha sancito il ritorno della “perfida Albione” nell’area atlantica anglosassone tradizionale.
L’UE è sì riuscita ad allargare la propria area di influenza recuperando all’ex URSS i Paesi dell’Est europeo, ma come dimostra l’attuale guerra in Ucraina, purtroppo non ha i mezzi per essere protagonista indipendente nella propria area geopolitica. Né dal punto di vista militare, dove è totalmente al traino degli Stati Uniti, né clamorosamente da quello delle risorse energetiche e delle materie prime. Clamorosamente, poiché il primo nucleo del processo di unione europea fu la CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio del 1951, istituita per garantire le fonti di energia e le materie prime necessarie alla costruzione del mercato comune europeo.
La dura verità è che – mentre alle frontiere del continente infuria un pericolosissimo conflitto armato provocato dalla maggiore potenza nucleare al mondo – l’Unione europea non dispone di una “force de frappe” comune, di un’autonomia delle fonti di energia e materie prime in grado di reggere agli effetti perversi delle sanzioni economiche contro la minaccia russa e una solida unità in grado di esercitare una politica estera e una diplomazia non nazionale ma comune e non subalterna a quella statunitense. Come è possibile, visto il contesto geopolitico summenzionato, che l’Europa abbia sognato ad un certo momento del proprio sviluppo, di diventare il terzo polo su scala mondiale, tra gli Stati Uniti e la Cina?
Ad alimentare quel sogno ha contribuito senz’altro il suo straordinario sviluppo economico. L’UE è il secondo maggior esportatore e importatore di beni al mondo e il primo negli scambi di servizi. A farla diventare un gigante economico ha contribuito il fatto che il suo processo di unificazione e di allargamento del mercato unico è andato di pari passo con quello della liberalizzazione degli scambi commerciali, dall’Accordo sulle tariffe doganali e il commercio del 1947(GATT), all’Organizzanizzazione mondiale del commercio (OMC) istituita nel 1995. La stagione euforica della globalizzazione e della liberalizzazione ha dato le ali ai Paesi trainanti dell’UE. Ma la stagione della globalizzazione felice è tramontata.
La somma delle resistenze dei Paesi e delle classi sociali vittime degli effetti perversi della liberalizzazione dei mercati hanno rilanciato protezionismi e nazionalismi. Non è un caso che a manifestare contro la globalizzazione un tempo fossero i sindacati e la sinistra e oggi siano (anche) le classi popolari che votano i sovranisti. E se si considerano attentamente le strategie e gli slogan delle due potenze che si contendono la supremazia su scala mondiale, Stati Uniti e Cina, si nota – benchè abbiano economicamente bisogno l’una dell’altra – una comune tendenza protezionistica e l’affermazione di una volontà imperiale assai simile. Mentre tre anni fa, al Forum di Davos, l’autocrate Xi Jinping indossava la maschera del campione della liberalizzazione del commercio mondiale, in realtà la politica che attuava era protezionistica come e forse più di quella che clamava Donald Trump col suo “Make America great again”.
Forte di un accentramento di potere politico e militare che nessun leader cinese ha mai avuto dopo Mao Zedong e di strumenti tecnologici di controllo sociale, politico ed economico senza precedenti, l’obiettivo evidente di Xi Jinping è “Make China great again” (cominciando col piegare Hong Kong e gli irriducibili indipendentisti di Taiwan). Un obiettivo che viene da lontano perché – come si evince dai suoi discorsi – vuol lavare l’onta della colonizzazione, dell’invasione secolare del Celeste impero da parte dell’Occidente, invertendo la direzione della Via della Seta. Attuando un imperialismo economico cinese rivolto in primo luogo all’Estremo oriente, ma anche al Pacifico, all’Africa e all’Europa. E creando un nuovo ordine economico-finanziario contrapposto a quello del dollaro.
In questo nuovo contesto geopolitico neo-imperiale dove Cina e Stati Uniti si contendono la supremazia mondiale, cosa è in grado di fare un’Europa continentale presa nella morsa di un pericoloso conflitto alle sue frontiere ad Est, di crescenti flussi migratori dal Mediterraneo e di una acuta crisi energetica e di materie prime che la spingono in recessione? Certo, si capisce che proprio in questa situazione di bisogno estremo l’Europa non abbia interesse a considerare Pechino come un nemico bensí come un partner essenziale ed un enorme, vitale mercato. Qualcuno afferma che sia necessario andare oltre: che occorra smarcarsi dalla politica dello scontro attuata da Washington e trattare da pari a pari con la Cina.
Sta di fatto che la maggioranza delle cancellerie europee (anche se Berlino sembra voler continuare imperterrito nella sua politica filocinese) sembra aver capito che la Nuova via della seta offerta da Pechino poteva trasformarsi in un regalo avvelenato da parte di un colosso economico, tecnologico, politico e militare nelle mani di un partito unico che controlla e orienta tutto in modo capillare (come ha dimostrato la politica Zero Covid): ogni movimento dei propri cittadini, la scienza e la ricerca e anche l’economia.
Lo Stato diretto dal partito guida, a sua volta diretto da Xi Jinping promuove e controlla anche le tecnologie e le attività economiche delle aziende e società che hanno scambi commerciali con il mondo intero. Il dilemma dei Paesi europei (più che dell’UE, visto che il Presidente del Parlamento europeo e la Presidente della Commissione europea fanno a gara ad escludersi a vicenda quando incontrano il Presidente cinese) è quindi il seguente: nelle relazioni con Pechino è possibile mantenere un atteggiamento di equidistanza rispetto a quelle con Washington, di cui l’Europa è in misura non indifferente vassallo? È possibile continuare a sognare addirittura di essere un terzo polo negli attuali equilibri e nel nuovo ordine economico-finanziario su scala mondiale, accanto agli USA e alla Cina? Alla prova dei fatti, il dilemma appare ormai retorico. Volente o nolente, questa Europa la scelta l’ha già fatta o subita. E temo che le sarà anche molto difficile giocare il ruolo di arbitro.