In questo barbaro XXI secolo, l’America anti trumpiana e l’Europa sono confrontati con un doloroso dilemma. Da che parte stare? Soprattutto l’Europa Unita (de jure, ma de facto disunita), la quale dopo la terribile seconda guerra mondiale si era illusa per più di settant’anni di aver dato – con il rinnegamento dei nazionalismi e l’affermazione dei valori della democrazia e la Dichiarazione dei diritti umani alla base delle Nazioni Unite e delle Organizzazioni internazionali – un contributo decisivo al compimento delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. Una disillusione profonda quella dell’Europa, che aveva creduto nella chimera dell’avvento di una nuova era di latte e miele che prometteva la “Fine della storia”, vaticinata pateticamente da Francis Fukuyama all’inizio degli Anni Novanta del secolo scorso. Oggi l’Europa, divisa e istituzionalmente incompiuta, è costretta ad accettare la fine di un sogno a lungo cullato: quello di diventare il Terzo polo geopolitico mondiale. In un mondo in cui vige ormai soltanto la legge del più forte e della giungla, l’Europa unita resta un gigante commerciale ma è geopoliticamente un nano. Un continente che ha appaltato per decenni la propria difesa militare alla NATO e agli Stati Uniti e (in larga misura) il proprio approvvigionamento energetico alla Russia di Putin e che quindi non possiede la forza contrattuale per emanciparsi da un’umiliante condizione di vassallaggio verso l’America di Trump. Incapace quindi di difendere, a fronte della furia di Trump, quel liberalismo basato non sulla legge della forza ma su accordi multilaterali che aveva contrassegnato gli ultimi Ottant’anni delle relazioni economiche internazionali.

Guardando all’operato di Trump – totalmente imprevedibile ma forse non così irrazionale come appare a prima vista – vien da pensare alle tesi dell’economista austriaco rifugiatosi negli USA Joseph Alois Schumpeter, il quale definiva il principio fondante del capitalismo la “distruzione creatrice”. «Il processo di trasformazione che va dalla fabbrica artigiana fino ai grandi complessi industriali illustra (…) una trasformazione organica dell’industria che rivoluziona incessantemente dall’interno le strutture economiche, distruggendo senza tregua l’antica e creando senza tregua la nuova. Questo processo di distruzione creatrice è il fatto essenziale del capitalismo, ciò in cui il capitalismo consiste, il quadro in cui la vita di ogni complesso capitalistico è destinata a svolgersi…».

Come una fenice, che muore e risorge. Schumpeter individuò nella distruzione creativa prodotta dal capitalismo non una minaccia ma una forza per l’imprenditoria, chiamata a continuamente innovare dal punto di vista della tecnologia ma anche delle idee e dei processi produttivi e di organizzazione. La vera chiave dei successi del sistema non sta in «come il capitalismo amministra le strutture esistenti, bensì come le distrugge e come ne crea altre». Questa distruzione creativa in un contesto di continua competizione -affermava – causa continui progressi e massimizza il benessere economico. Secondo lui, anche “una certa dose di monopoli” è preferibile per la “perfetta competizione”, poiché rappresentano «una minaccia continua che favorisce un disciplinamento, prima che essa attacchi». È difficile vedere nella linea di condotta (economica e politica) dell’Amministrazione Trump un disegno di politica economica coerente.

Per quel che appare, a prevalere sono l’istinto immediato e continue contraddizioni tipiche di chi è abituato ad un braccio di ferro in vista del deal migliore, senza temere di imporre la legge del più forte. Eppure, questa totale imprevedibilità, questa conflittualità continua, questa distruzione creatrice (semmai si rivelerà creatrice e se il MAGA riuscirà nel suo intento di rilanciare la superpotenza statunitense) non rappresenta forse il peggior veleno per la filosofia confuciana su cui poggiava l’antico impero cinese e che continua ad impregnare la mentalità profonda del nuovo governo imperiale cinese comunista, guidato con pieni poteri e un pugno di ferro da Xi Jinping? Una filosofia basata sul concetto di armonia (che si trasforma in censura violenta per chi ne contesta la sua traduzione politica odierna e chiede libertà di opinione e di critica, libertà di espressione individuale, politica o etnica).

Facendo saltare il tavolo delle regole di una globalizzazione basata sul multilateralismo e le organizzazioni internazionali e imponendo una strategia dello scontro-confronto fra i nuovi imperi basato sulla legge del più forte, Trump impone alla Cina un contesto strutturalmente disarmonico, non congeniale ai fondamentali socio-culturali cinesi. Il monito antico di Sun Tzu, autore del “Trattato sulla guerra” è ben presente al nuovo imperatore comunista Xi Jinping: «Conosci in anticipo le mosse del tuo nemico e non scendere in campo prima di essere certo che vincerai la guerra». Con Trump tutto ciò è oggettivamente più difficile. Non si può negare che l’era gloriosa del multilateralismo, dei commerci regolati e delle Organizzazioni internazionali – proprio perché basati su regole chiare e condivise – abbia permesso alla Cina  di svilupparsi a ritmi straordinari e di ampliare il controllo e la propria egemonia economica su interi continenti, in particolare in Asia, nei Paesi emergenti e sulle rotte commerciali di mezzo mondo.

Complice la benevolenza ingenua degli Stati Uniti e dell’Europa, nell’era del multilateralismo, del mercato regolato e degli organismi internazionali, la Cina ha approfittato di uno statuto di Paese in via di sviluppo (che la sua forza economica non giustifica più da tempo), nonché della clausola di nazione più favorita (accordata ignorando il suo regime autoritario) per diventare la seconda potenza mondiale e prepararsi a diventare la prima. E questo, in barba ai principi del libero scambio multilaterale, truccando le carte e senza trasformare davvero la propria economia in un’economia di mercato.

La Cina di Xi Jinping ha rafforzato il proprio sistema statale dirigista, controllato completamente dal partito comunista, nei confronti dell’industria e ha creato una rete potentissima di gigantesche imprese statali (cfr. Le multilateralisme à l’épreuve, Institut Jean Monnet 2023). Le è anche riuscito di far riscrivere e reinterpretare una serie di trattati internazionali a proprio favore e a proporre (in particolare ai Paesi asiatici e a quelli del Brics) una riorganizzazione del sistema economico-finanziario mondiale alternativo a quello oggi dominato dal dollaro. Proponendosi insomma come la potenza egemone di un nuovo ordine economico-finanziario mondiale del quale il Renminbi (che significa “moneta del popolo”) sia la valuta di riferimento.

Il dilemma dell’Europa è quindi solo apparente. Obtorto collo, pur umiliata e serrando i pugni in tasca, è costretta ad accettare la Lex americana del MAGA. Deve pensare da sola alla propria difesa aumentando il budget militare di 800 miliardi (acquistando la maggioranza delle armi e delle tecnologie militari agli USA…). E a comprare centinaia di miliardi di gas liquido… sempre agli Stati Uniti. La dipendenza dagli USA è inesorabile. Una Terza via non appare all’orizzonte.