Quella data resta impressa nella memoria diffusa e nei libri di storia per quello che fu: un inammissibile atto di barbarie. Solo i regimi e i movimenti che fanno dell’odio all’Occidente nel suo insieme il collante per rafforzare il proprio potere negando valori e diritti fondamentali delle persone umane non lo denunciarono o furono addirittura compiacenti nei confronti di quell’attacco senza precedenti, che purtroppo diede la stura ad una lunga lista di altri barbari attentati e uccisioni di ostaggi inermi da parte della cosiddetta Jihad islamica contro la popolazione occidentale in Europa e altrove.
Il pogrom del 7 ottobre 2023 contro 1200 civili ebrei e la presa d’ostaggi perpetrati con una barbarie inaudita dal braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedin al-Qassam si collocano in continuità con l’attentato dell’11 settembre nella guerra che il terrorismo islamico conduce contro le democrazie occidentali, democrazie che Israele rappresenta in un Medio Oriente dominato da regimi teocratici e/o non democratici.
Il proditorio attacco è nel contempo l’ennesimo tentativo di impedire una soluzione di pace del conflitto mediorientale che riconosca a Israele il diritto di esistere. Non bisogna dimenticare infatti che Hamas, e in particolare le brigate Ezzedin Al-Qassam, sono nate come lo strumento militare chiamato a sabotare (con ripetuti attacchi terroristici mirati) la realizzazione degli Accordi di Oslo del 1993, che avevano gettato le basi di una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese in Medioriente. Una regione mediorientale che negli ultimi decenni è lacerata da una guerra per l’egemonia che vede l’Islam di fede sciita e quello sunnita l’un contro l’altro armati, ma che poco tempo fa aveva visto nascere anche nuovi segnali di una possibile distensione, in particolare una diversa strategia da parte dei Paesi del Golfo nelle relazioni con l’Occidente e Israele.
Non è casuale che l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 sia intervenuto non in un momento di particolare recrudescenza del conflitto arabo-israeliano bensì dopo la conclusione dei cosiddetti “Accordi di Abramo” del 2020, che sono stati sottoscritti – sotto l’egida di Donald Trump – da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein e rappresentano il primo accordo di normalizzazione delle relazioni tra Paesi arabi e Israele dopo quelli sottoscritti con l’Egitto nel 1979 e con la Giordania nel 1994. Una prospettiva di normalizzazione fra Israele e gli Emirati arabi, a grande maggioranza sunnita, che osteggia risolutamente l’Iran teocratico e sciita. Teheran usa, finanzia massicciamente e arma i movimenti terroristici di Hezbollah (sciita) ed Hamas (movimento antisionista, che quindi fa gioco benché sia di orientamento sunnita) per rafforzare l’asse politico-militare deciso ad annientare Israele e a bloccare ogni nuova possibile intesa.
Per la sua efferatezza, il pogrom del 7 ottobre – che in molti israeliani ha risvegliato il trauma della Shoa – sembra fatto apposta per impedire che a seguito degli “Accordi di Abramo” venisse inaugurata un’ “era delle partnership” (così l’avevano definita gli Emirati arabi) dopo una lunga era di conflitti insanabili in Medio Oriente. Proprio questo è infatti accaduto. L’esercito di Israele ha reagito con un’offensiva militare che va oltre il diritto alla legittima difesa, anteponendo il fine di estirpare Hamas dai gangli vitali della Striscia di Gaza al rispetto del diritto internazionale, in particolare quello che impone di risparmiare i civili durante le guerre.
È innegabile che l’uso della popolazione civile come scudo e dei sotterranei di istituzioni mediche e scolastiche come sedi operative dello Stato maggiore e delle milizie da parte di Hamas al fine di proteggersi dagli attacchi del nemico sia una strategia riprovevole. Se la popolazione di Gaza paga oggi un tributo di sangue e umanitario tremendo, ciò è il risultato di un attacco brutale e una presa di ostaggi che non poteva che scatenare una terribile reazione, nonché di questa strategia premeditata degli scudi civili da parte di Hamas. Il movimento terroristico pagherà probabilmente il conto, indipendentemente dall’esito del conflitto in corso. Ciononostante, anche Israele è caduto nella trappola di Hamas: inimicandosi buona parte dell’opinione pubblica occidentale e parte del sostegno istituzionale degli Stati Uniti.
Qui sta una significativa differenza fra le conseguenze dell’attacco dell’11 settembre e quelle del 7 ottobre. Nel 2001, il motto “Siamo tutti americani” si era levato immediatamente e aveva spinto larghe fasce della popolazione occidentale a manifestare la propria solidarietà con gli Stati Uniti colpiti da un’aggressione senza precedenti. Oggi, invece, la barbara uccisione del 7 ottobre di 1200 civili israeliani inermi è stata rapidamente cancellata dalla labile memoria della maggioranza dell’opinione pubblica e dai mezzi di comunicazione. La voce dei movimenti femministi non si è levata per denunciare le violenze sessuali – stupri e mutilazioni nei confronti di bimbi e donne aggredite, uccise o prese in ostaggio – crimini accertati da una Commissione delle Nazioni Unite.
Molti hanno ceduto alla tentazione di pesare il male: di fare un macabro calcolo comparativo del numero dei morti da una parte e dall’altra, per stabilire chi avesse la colpa più grave. E qualcuno ha addirittura brindato. Non solo nei ranghi dei movimenti che covano un odio profondo verso Israele visto come forza d’occupazione (anche militare) del loro territorio. Hanno brindato anche professori universitari in America e in Europa, un paio anche in Svizzera (commentando i video dell’attacco con le parole “È il più bel giorno della mia vita”). E a catena, in prestigiose università statunitensi, europee e anche svizzere, manifestanti pro-palestinesi hanno chiesto a gran voce non la pace fra i contendenti di una guerra tremenda che dura da 75 anni e l’arresto dei mandanti che hanno compiuto premeditatamente il pogrom del 7 ottobre bloccando con ciò un processo di possibile normalizzazione in corso. Hanno chiesto, invece, una “Palestina libera, dal fiume al mare”. Che significa negare ad Israele il diritto all’esistenza.
È vero che non poche voci e importanti movimenti di opinione avevano condannato anche la risposta armata indiscriminata degli Stati Uniti all’attacco dell’11 settembre, ovvero la dichiarazione di guerra globale al terrorismo che (oltre ad imporre leggi liberticide in patria) finì per giustificare l’invasione statunitense dell’Iraq senza riuscire a sconfiggere i Talibani (oggi al potere più che mai in Afghanistan, dove impongono a donne e uomini la legge della sharìa).
Ma, dopo il 7 ottobre, non può non colpire il fatto che a levarsi è stato un vasto movimento di opinione solidale non con chi ha subito il pogrom del 7 ottobre bensì con la popolazione palestinese che ha dato il proprio sostegno ad Hamas. Con slogan che ricalcano la volontà di Hamas stesso, di Hezbollah e dell’Iran, di epurare Israele dal territorio dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo). Colpisce la mobilitazione studentesca unilateralmente anti-israeliana (in taluni casi anche antisemita, seppur mascherata dietro a slogan anti-sionisti) ma anche e soprattutto l’atteggiamento compiacente di alcuni accademici che – confondendo il principio della sacrosanta libertà accademica con l’ideologia – hanno giudicato le brutali milizie di Hamas dei resistenti all’occupazione israeliana.
Negli ultimi mesi, in diverse università occidentali, accademici che non condividevano l’impostazione pro-palestinese degli studi detti “post-coloniali” sono stati allontanati o i loro corsi sono stati derubricati. Un fenomeno che si colloca nella tendenza diffusa in non poche università occidentali sulle due rive dell’Atlantico ad andare oltre un sano spirito critico nella ricerca e rilettura del passato coloniale dell’Occidente, finendo per soccombere a ciò che qualcuno definisce ormai un “odio nei confronti di sé stesso”.