Luisa Lambertini, come sono stati questi primi mesi?
«Molto intensi, ma mi hanno dato la possibilità di conoscere l’università. Sono stata accolta in modo molto caloroso e ho visto diverse cose su cui credo si possa lavorare insieme per far progredire l’USI».
Lei aveva dichiarato di essere venuta qui per ascoltare e imparare. Cosa ha imparato finora, e cosa eventualmente crede di dover ancora imparare?
«I dettagli sono probabilmente tanti e troppi (ogni università funziona in modo unico). Mi sono rimboccata le maniche cercando soprattutto di capire quali sono i punti di forza e quelli più deboli dell’USI, di conoscere i colleghi e il personale amministrativo, e di capire quali sono le sfide del territorio, perché le università devono anche interfacciarsi e intraprendere quelle attività che sono rilevanti per la regione in cui vivono».
Lei ha vissuto esperienze universitarie molto diverse, italiana, statunitense e svizzera. Quali di queste l’hanno influenzata di più?
«L’esperienza negli Stati Uniti è stata importante per capire come si fa la ricerca e come la si dovrebbe valorizzare – quali sono gli strumenti, come formare un dipartimento, i criteri di qualità… Quella svizzera è stata fondamentale per capire la struttura di questo Paese, come le università si interfacciano con la società e con le istituzioni, la sua multiculturalità e il suo plurilinguismo».
È possibile definire uno “stile Lambertini” nella conduzione di un’università?
«Lavoro molto al tavolo con tutti, cerco sempre di far partire le iniziative dal basso, con il contributo per lo meno di una buona maggioranza, non mi piacciono particolarmente le gerarchie, mi piace lavorare per degli scopi precisi, vado abbastanza diritta per la mia strada e non mi fermo davanti agli ostacoli: quando ho un progetto o un’idea in testa li spingo finché non mi convincono in maniera esaustiva che non deve essere fatto».
Non le dispiace vedere dei lavori che ha iniziato al Politecnico di Losanna (EPFL) essere portati avanti e terminati da qualcun altro?
«No, devo solo essere grata all’EPFL per avermi messo nelle condizioni migliori per poter affrontare questa nuova sfida».
Qual è stato il motivo profondo, vero, che ha convinto Luisa Lambertini ad accettare questa sfida, ossia dirigere un’università tutto sommato piccola e periferica, con nessuna tradizione?
«Appunto la sfida. L’USI è un’università piccola ma speciale, in cui vi è davvero la possibilità di fare qualcosa. I grandi atenei sono come treni la cui via è sostanzialmente tracciata e ben definita, qui invece l’ambiente è molto più malleabile. Inoltre anche l’USI possiede delle eccellenze, e la sua posizione geografica tra Zurigo e Milano è molto interessante».
Cosa l’ha colpita in modo particolare dell’USI?
«Ci sono alcune competenze speciali. Pensiamo all’Accademia di architettura, che è veramente il nodo tra la Svizzera e la cultura italiana, un matrimonio unico e una storia di successo. Abbiamo anche facoltà e istituti affiliati in cui operano persone con capacità di ricerca incredibili. Non dimentichiamo inoltre che quando l’USI è stata fondata la Facoltà di scienze di comunicazione è stata una delle prime nel suo genere, una scelta lungimirante. Per non dimenticare la Facoltà di scienze informatiche, classificata terza in Svizzera dietro i due politecnici, e la Facoltà di scienze economiche, il cui Master in Finance è nei top 30 mondiali, e la neo-affiliata Facoltà di Teologia, che il prossimo anno accademico festeggia il suo trentesimo anniversario».
Dove questa università non solo può, ma deve migliorare?
«L’USI è cresciuta nei suoi quasi trent’anni di esistenza a ritmo molto elevato, ma le sue istituzioni non hanno tenuto il passo. Parliamo del modo in cui un’università funziona. I nostri servizi sono rimasti molto piccoli rispetto alle dimensioni attuali dell’USI. Bisognerà investire in questi processi, in modo da portarli al livello della sua ricerca. Altra cosa che ho notato è che ci sono degli imbuti strutturali: siamo nella Svizzera italiana, dobbiamo evidentemente dare dei corsi in italiano, ma gli studenti svizzeri che parlano italiano sono pochi. La sfida quindi, visto che qui la ricerca si fa e si fa bene, sarà riuscire ad attrarre studenti da altre università e non soprattutto dall’Italia».
L’USI è forse l’unica università di lingua italiana al di fuori dei confini italiani: questa sua unicità è un handicap o un atout?
«È un atout ma dobbiamo essere agili e non metterci dei vincoli troppo forti, altrimenti ci soffocano. È giusto essere l’Università della Svizzera italiana, in cui la cultura e la lingua italiana fanno parte del tessuto fondamentale, ma dobbiamo anche essere pragmatici e capire che certi corsi devono essere dati in inglese – quelli di master in modo obbligatorio, salvo eccezioni – perché questo garantisce la mobilità, non solo degli studenti che vengono a studiare qui, ma anche dei ticinesi che qui studiano, che devono poter ottenere il bachelor e muoversi poi per il master altrove, o viceversa».
La scarsa attrattività dell’USI verso gli studenti del resto della Svizzera è solo questione di lingua o anche di percezione della qualità del suo insegnamento?
«La questione della lingua sicuramente ha un ruolo importante, ma è soprattutto una tendenza nazionale quella di restare a studiare nella propria regione linguistica. Uno studio dell’Ufficio federale di statistica (UST) evidenzia che solo il 5% degli Svizzeri tedeschi e francesi intraprende gli studi in un’università di una regione linguistica svizzera diversa da quella di origine. In generale i germanofoni restano in università svizzero-tedesche, i francofoni in università svizzero-francesi. La situazione è un po’ diversa per gli italofoni visto che l’offerta di studi all’USI è più limitata, non offriamo tutte le discipline, e che la buona conoscenza del francese e del tedesco è necessaria nel mondo del lavoro svizzero. Cambiare queste abitudini è una sfida, attirare studenti da altre regioni linguistiche non è difficile solo per noi, lo è per tutti. Dalla statistica dell’UST risulta infatti un altro dato significativo: le università svizzere attirano più facilmente studenti da altri Paesi che dalle altre regioni linguistiche nazionali. All’USI la lingua inglese può aiutare e a livello di master dobbiamo farci conoscere meglio, puntando sulla qualità e offrendo corsi interessanti, importanti e rilevanti. Vorrei che l’USI fosse leader nella formazione».
Si sente spesso dire che la scuola, nei suoi vari livelli, deve soprattutto preparare i giovani al mondo del lavoro. Concorda?
«L’università e in generale la scuola deve preparare alla vita, a carriere che iniziano oggi ma non sappiamo come evolveranno. Le cose cambiano, e molto in fretta. Ci sono oggi una miriade di professioni che vent’anni fa non esistevano. È possibile inoltre che l’intelligenza artificiale (IA) andrà a ridurre non solo l’attività manuale, come già hanno fatto i robot e i computer, ma anche il lavoro intellettuale, per cui quello che noi dobbiamo davvero insegnare ai nostri studenti e alle nostre studentesse è come apprendere e come evolversi: imparare ad imparare insomma, e rimanere sempre aperti. La formazione continua è qualcosa che assumerà sempre maggiore importanza, per questo mi piacerebbe che anche l’USI, non solo la SUPSI, assumesse in questo campo un ruolo sempre più forte».
Sono davvero giustificate le grida di allarme contro l’IA?
«Che l’intelligenza artificiale possa essere usata anche per scopi negativi è un fatto. Ciò non toglie che possa anche essere usata per scopi positivi. Bisogna quindi abbracciarla non in modo acritico, ma in un contesto in cui ci siano regole e limiti ben precisi, decisi e imposti dopo una profonda riflessione. Anche questo è un campo in cui la ricerca e le università possono aiutare, non solo sviluppando questa tecnologia, ma anche definendo il contesto etico e sociale nel quale l’IA opera e viene utilizzata».
Lei all’inizio ha parlato di un’università collegata con il suo territorio pronta a coglierne le sfide e le esigenze. Quali sono?
«Il Ticino fino a vent’anni fa aveva un paio di settori trainanti, che tuttavia oggi hanno subito un ridimensionamento. Contemporaneamente però sono nati, solo per fare due esempi, il polo della biomedicina e la Facoltà di scienze informatiche, che hanno creato una serie di attività collegate e di startup, con ricadute su tutta la società e tutti i settori economici. Ci sono inoltre delle sfide globali che avranno degli effetti pure sulla nostra regione; bisognerà quindi sviluppare, in collaborazione con il Cantone e le realtà in esso esistenti, progetti specifici sulla sostenibilità economica, ambientale e sociale ai quali i nostri ricercatori potranno partecipare e contribuire».
Le piacerebbe avere una Facoltà in più? Nel caso, quale?
«Posso pensarne tante, ma bisognerà anzitutto vedere se ci saranno le risorse per crearla. Devo però essere sincera: al momento la grande sfida è la biomedicina, una facoltà che ha dei costi molto più elevati rispetto alle altre e che deve essere consolidata e sviluppata. L’obiettivo al momento è questo. Altre iniziative penso che potranno svilupparsi in collaborazione con altre università svizzere, cercando di trovare punti di intersezione tra quello che l’USI e gli altri atenei offrono. Chiaro che a lungo termine avere un Politecnico in lingua italiana potrebbe essere interessante, come già ipotizzato dal Prof. Martinoli che ha ricoperto questo ruolo prima di me, ma la fattibilità di questo progetto non è chiara».
In questo senso la sua esperienza e i suoi contatti a Losanna potrebbero essere utili…
«Credo di sì, anche se ho notato che qui ci sono contatti molto stretti soprattutto con Zurigo. Con Losanna c’è ancora un po’ di distanza, che mi auguro possa essere ridotta».
Progetti per i suoi studenti?
«Mi piacerebbe dare un po’ più di vita al campus universitario. Anche l’EPFL, quando arrivai nel 2007, alle 5 del pomeriggio si svuotava; per fortuna nel tempo sono sorte delle strutture al suo interno e nei dintorni e oggi c’è sempre vita, pure sabato e domenica. Ed è importante, perché ci sono studenti che vengono qui, sono soli e devono avere la possibilità di creare una comunità. Questo ha degli aspetti positivi anche per la città, e per questo ne ho già accennato al Municipio di Lugano».
Lei è stata nazionale italiana di pallamano. Cosa le ha dato un’attività sportiva ad alto livello?
«Anzitutto mi sono divertita molto. Ti fa inoltre capire come far competizione, quando bisogna essere agguerrite e quando invece fare un passo indietro. Come tutti gli sport di squadra si impara anche che da soli non si va da nessuna parte, e a vivere e a convivere per settimane con persone diverse da te».
Lei quindi si considera una donna di squadra?
«Sì (senza esitazione)».
È anche competitiva?
«Sì (senza esitazione)».
Al di là di questo come si definirebbe?
«Mi piace scherzare e cerco sempre di essere di buonumore, mostrando il lato positivo di me stessa, sono un po’ intensa ma sto cercando di imparare a trattenere le parole quando vorrebbero scappare. Sono una buona forchetta, anche se ho imparato a cucinare quando sono partita dall’Italia e la mamma non c’era più. Purtroppo a cucinare bene ci vuole tempo, cosa che il più delle volte mi manca. Sto anche cercando di diventare vegetariana».
Il suo a quanto dice scarso tempo libero come lo occupa?
«Mi è rimasto il pallino dello sport (tennis, corsa, bicicletta, passeggiate con il cane…), che mi rilassa, leggo, anche se meno di quanto vorrei, e cerco di vedere amici».
Come rettrice avrà soprattutto compiti amministrativi. Non le mancherà la parte accademica?
«Molto, ma sono stata molto chiara: non intendo smettere di fare ricerca e di insegnare. Naturalmente non come prima, ma non intendo smettere anche perché li ritengo aspetti fondamentali per una rettrice o un rettore, ché altrimenti perde il contatto e la mentalità».
Senza entrare nel merito delle dimissioni del suo predecessore, che rapporti ha instaurato finora con il Consiglio di università e il DECS?
«L’ho detto fin dall’inizio: sono contenta di venire all’USI a lavorare come rettrice e sono pronta a lavorare con tutti nei limiti delle rispettive responsabilità e competenze».
I paletti sono chiari quindi per una triade tutta femminile: rettrice, presidentessa del Consiglio e consigliera di Stato. Forse un unicum mondiale. Questa dirigenza tutta femminile secondo Lei potrebbe portare, nel bene e nel male, a dinamiche particolari?
«È in effetti una situazione unica, un’intersezione che può aprire molte possibilità. Io ho già affermato che mi impegnerò affinché l’USI promuova le carriere femminili e aumenti la percentuale di donne nel corpo accademico, perché da questo punto di vista siamo un po’ indietro. Immagino che questa situazione possa aiutare».
Le donne sono la maggioranza degli studenti, gli uomini sono la maggioranza dei professori. Come spiega questa evoluzione?
«Sicuramente la difficoltà di combinare vita accademica e vita familiare gioca un ruolo, ma anche il fatto, soprattutto in certe facoltà, che la vita universitaria è tradizionalmente maschile. Purtroppo la bacchetta magica non esiste, e io di sicuro non ce l’ho; ho comunque visto come alcune università hanno cercato di rispondere al problema. Bisogna avere flessibilità, e strutture che possano aiutare a combinare la vita professionale con quella privata. Personalmente inoltre ritengo che nelle commissioni di preavviso ci debbano essere almeno due donne».