Andrea Conconi, vogliamo innanzitutto ricordare che cos’è IVVT e quali sono le principali funzioni che è chiamata ad assolvere?
«L’Interprofessione della vite e del vino ticinese raggruppa tutti gli attori della filiera vitivinicola cantonale. Il suo compito è quello di coordinare la produzione e la trasformazione. IVVT è anche l’interlocutore con l’Interprofessione svizzera. Sotto il suo mantello ci sono diverse commissioni. La più conosciuta è sicuramente Ticinowine che si occupa della promozione dei vini, ma esistono anche quella dei vitigni, quella della commissione di degustazione della DOC e quella dei fitofarmaci. Il suo incarico è più tecnico, legislativo e intrattiene i contatti con le amministrazioni cantonali e federali, ed informa i produttori sui cambiamenti legislativi».
Con quale spirito si accinge a ricoprire la carica di Presidente e quali obiettivi si prefigge di raggiungere nel corso del suo mandato?
«Come sempre, cercherò di far emergere il mio lato positivo e comunicativo per mantenere quella collegialità che in questi anni ha distinto il nostro settore. Non sempre si riesce a ottenere l’unanimità nelle decisioni, ma avere il consenso maggiore possibile è uno degli obiettivi. Il mercato soffre dell’insicurezza generale che colpisce i vari settori, alcuni potremo influenzarli attandoci, con altri, purtroppo, dovremmo conviverci».
Più in generale, quali sono i principali problemi con cui è chiamato oggi a confrontarsi in settore vitivinicolo in Ticino e in Svizzera?
«Sicuramente i cambiamenti di abitudini, che hanno portato ad una repentina diminuzione del consumo, sono quelli che preoccupano di più il settore e che non è possibile influenzare a breve. Inoltre, i cambiamenti climatici, con le primavere piovose e le estati calde, non solo influenzano il consumo, ma rendono difficoltosa anche la produzione. Prima abbiamo parlato di vitigni, ma gli studi per le innovazioni in viticoltura sono lenti e ci vuole tempo a adattarli.
Nell’ambito di IVVT un’attenzione particolare è rivolta alla preservazione dei vitigni che sono alla base della produzione enologica ticinese. Tra vitigni vecchi e nuovi con quali caratteristiche si presenta la situazione attuale?
«Senza dubbio il Merlot la fa da padrone e la farà ancora per decenni. Tuttavia, da anni i viticoltori hanno cecato di diversificare la produzione. Un occhio di riguardo, oggi, è puntato sui vitigni resistenti alle malattie fungine. Se qualche vitigno bianco interessante c’è, per le uve rosse attualmente in prova, ancora non si vedono all’orizzonte uve che possano sostituire il nostro Merlot o vitigni internazionali. Con il progetto ViSo “Viticoltura Sostenibile”, stiamo lavorando per la viticoltura del prossimo futuro: vitigni, prodotti fitosanitari, eliminazione erbicidi e altro».
Vitigni eroici, vignaioli coraggiosi
Pur tra notevoli difficoltà la viticultura ticinese sta cambiando volto grazie soprattutto alla volontà di imprenditori decisi ad affermare la propria visione. Le opinioni di Luca Locatelli (Manimatte) e Gabriele Bianchi (Azienda agricola Bianchi).
Cosa significa per voi lavorare su vigneti eroici terrazzati del Bellinzonese? È una sfida tecnica, o anche culturale e identitaria? Ci racconti come è nata questa sfida e cosa significa per te?
Luca Locatelli: «Per noi è anzitutto un atto di resistenza culturale e identitaria. Questi terrazzamenti raccontano secoli di viticoltura ticinese, sempre più minacciati dal cambio generazionale. La sfida è nata quando abbiamo acquisito il primo ettaro: volevamo fare qualcosa di diverso, dimostrare che viticoltura eroica e sostenibilità possono convivere. Tecnicamente significa rinunciare alla meccanizzazione, lavorare ogni pianta manualmente, gestire pendenze estreme e microclimi diversi. Ma culturalmente significa custodire un patrimonio: muri a secco, architettura rurale, terrazzamenti. La scelta delle varietà resistenti nasce qui: essere coerenti con la filosofia biologica senza snaturare il territorio, innovare rispettando la tradizione».
Come si vive quotidianamente la “fatica bella” di coltivare la vigna sui terrazzamenti? Che cosa avete imparato dal confronto diretto con la natura lavorando in quei luoghi così esigenti?
Luca Locatelli: «La fatica bella inizia all’alba d’estate per evitare il caldo torrido, d’inverno sfruttando ogni raggio di sole per scaldarsi. Ogni giorno è diverso: tagliare l’erba a decespugliatore, legare ogni tralcio a mano, vendemmiare in cassette. Ma è una fatica che alla sera ti lascia soddisfazioni, con la consapevolezza di aver dialogato con la natura. Dal confronto diretto abbiamo imparato l’umiltà: la natura non ha fretta e non perdona la superficialità. Ogni vigneto ha le sue caratteristiche, ogni varietà resistente reagisce diversamente. Le varietà resistenti ci hanno insegnato che collaborare con la genetica naturale riduce lo stress per l’ecosistema. La natura ci ha insegnato ad avere pazienza e che la diversità è ricchezza. La fatica diventa è bella quando non solo fai vino, ma custodisci un ecosistema».
In che modo l’introduzione di vitigni resistenti sta cambiando il vostro modo di fare vino (cantina e assortimento) – e di vedere il futuro? Come si riflette il vostro carattere nei vini che producete e nelle nuove proposte di prodotto? Quali sono le tue soddisfazioni più grandi?
Luca Locatelli: «I vitigni resistenti hanno rivoluzionato tutto: in cantina lavoriamo con uve più sane, riducendo drasticamente i trattamenti e permettendo fermentazioni spontanee autentiche. Il nostro assortimento si sta diversificando con varietà che raccontano storie nuove mantenendo il carattere del territorio. Vediamo un futuro dove la viticoltura non combatte la natura ma la asseconda. Il nostro carattere si riflette nei vini attraverso scelte coraggiose: fermentazioni spontanee, interventi minimi e “un pizzico di creatività” come diciamo noi. Le nuove proposte nascono dalla sperimentazione con varietà come Souvignier gris, Johanniter, Satin noir, e molte altre, riscoprendo anche autoctone quasi dimenticate come la Bondola. La soddisfazione più grande? Vedere che i nostri vini raccontano esattamente chi siamo: autentici, senza compromessi».
Come riuscite a integrare il Bio, biodiversità e sostenibilità nella vostra quotidianità agricola? Cosa vi ha spinto a scegliere (o a restare in) questa strada, e qual è il senso più profondo che oggi trovate nel vostro lavoro in vigna e in cantina?
Gabriele Bianchi: «Il Bio è ormai parte integrante della nostra realtà. Coltiviamo e seguiamo questi principi da più di 25 anni (dal 1998), per noi seguire il ritmo della natura e le sue variazioni è diventata diciamo un’abitudine. Comporta molti sacrifici, capacità di osservazione e soprattutto di reazione molto rapida. Il tutto si basa sulla prevenzione e la costante ricerca d’equilibrio. Questo metodo di coltivazione ci sta regalando da ormai diversi anni grandi soddisfazioni sia personali che aziendali. La soddisfazione più grande è forse vivere e crescere mio figlio in questo ambiente, a stretto contatto con la natura e gli animali della nostra azienda, cercando di trasmettere tutti i valori in cui credo e che porto avanti da anni insieme a tutta la famiglia».
Quali sono i piccoli grandi gesti quotidiani che vi aiutano a rispettare la biodiversità? Un episodio che vi ha dato la conferma della vostra scelta?
Gabriele Bianchi: «In realtà non c’è un gesto particolare, ma un insieme di piccoli dettagli che giornalmente cerchiamo di curare o prestare attenzione. Dalla lettura dei grafici delle nostre stazioni meteo (temperature e pluviometria) fino alle decisioni di che tipo di lavoro fare, seguendo i principi fondamentali agronomici.
Tra le più grandi soddisfazioni di questi anni c’è sicuramente la gestione del suolo, che grazie a diverse prove e lavorazioni stiamo riportando ad uno stato di fertilità veramente interessante. La grande difficoltà è riuscire ad isolare una singola operazione per capirne la bontà o meno. In un sistema così complesso è difficile dire se proprio quel lavoro è stata significativamente rilevante o meno in quanto i fattori esterni (condizioni climatiche in particolare) influenzano parecchio la nostra attività giornaliera».
Qual è il vino che meglio racconta l’anima della vostra azienda? Immaginate di offrire un bicchiere del vostro vino a una persona che non vi conosce: cosa vorreste che sentisse o ricordasse di quel momento?
Gabriele Bianchi: «Ci sono due vini che raccontano una storia speciale. ALMA, è stato il primo vino che ho realizzato con mio fratello Martino, con il quale gestisco l’azienda, ed è realizzato con varietà resistenti, cosiddetti PIWI: Johanniter e Solaris. È un vino floreale, delicato e persistente, ottimo per accompagnare l’inizio di una bella serata o da accostare ad un primo piatto. È un vino dedicato a mamma e papà, Alma infatti in portoghese (la nostra mamma è Brasiliana) significa anima, da loro è nato tutto quello che abbiamo oggi e ne saremo sempre riconoscenti.
PIAZ MERLOT, vino rosso barricato, è invece la grande sfida iniziata nel 2012, quando la nostra famiglia ha deciso di produrre un merlot biologico. Una sfida che oggi posso dire abbiamo vinto. Grazie a questo vino abbiamo potuto confrontarci con i nostri colleghi e raggiungere dei bellissimi riconoscimenti nazionali e internazionali. Portando la qualità dei nostri prodotti e dell’intera azienda sempre più in alto.
È un vino sincero, fruttato e complesso, con una buona complessità. Un vino piacevole che richiama un secondo bicchiere e che trovo rappresenti molto bene anche tutto l’impegno e la passione che mettiamo in tutto ciò che facciamo giornalmente».



