Lei, vice direttrice artistica e Head of International dell’ufficio Industry del Locarno Festival, il cinema lo abita, interroga e costruisce da più di trent’anni. Dunque è la persona ideale per capire come stia, il cinema, e come un Festival possa contribuire a renderlo forte. Se non addirittura, in periodi difficili, a farlo sopravvivere. E lo si può fare attraverso lo sguardo mosso dagli occhi del Locarno Festival, uno sguardo esperto e rivolto al futuro, a costo di sfidare la carta d’identità che proprio quest’anno alla voce “età” risponde “settanta”. «Non vogliamo vivere questa cifra come una celebrazione – assicura Nadia Dresti – bensì come un traguardo, certo, ma soprattutto come una solidissima rampa di lancio: ci siamo, siamo giovani, rimettiamoci in gioco e ricominciamo da capo. Quando siamo stati in America, a Los Angeles per la notte degli Oscar o a New York, rimanevano sbalorditi che avessimo 70 anni».

 

La prima novità è il cambio del nome: Locarno Festival…

«Una scelta dinamica, che racconta un evento internazionale che è cinema ma anche formazione, incontro, relazioni e pure svago. Il cuore, chiaro, restano i film. Il cinema non è più nel nome, ma rimane a livello strutturale, con un profilo riconosciuto ovunque, giovane e d’autore. E pure battagliero, che non ha mai ceduto alla vena prettamente commerciale per portare nomi e marciarci. A me piace dire che la sera siamo red carpet, durante il giorno black carpet».

 

Cinema a 360°…

«La sera il pubblico è eterogeneo, composto da persone che hanno voglia di gustarsi uno spettacolo di stelle in una serata d’estate. Di giorno invece è il momento della cinefilia, di un pubblico che ha tutt’altro sguardo sul cinema. Sono due modi diversi di avvicinarsi alla cultura e il primo può portare al secondo».

 

L’offerta audiovisiva, di cui Netflix è una delle ultime frontiere, aumenta esponenzialmente…

«Il risultato è da una parte che il pubblico si parzializza, dall’altra che in generale aumenta. E una percentuale, perché no, può appassionarsi al cinema, al cinema d’autore, alla sala».

 

Anche contro un home-vision sempre più performante?

«A New York, città avanguardista, le sale da cinema stanno tornando alla moda. Un po’ come il vinile, sta tornando il culto dell’uscire per andare in sala e scoprire l’offerta del curatore. Un’uscita culturale e allo stesso tempo sociale. Farlo è “in”, è considerato “high”».

 

In un panorama così liquido, “on demand”, ritmato, un Festival può apparire come un dinosauro…

«Invece sono sempre più importanti perché il cinema d’autore è programmato sempre di meno. Diventano dunque imprescindibili, permettono a quel cinema, la cui via per la sala si è appunto ristretta, di vivere. Un Festival è il gusto di scoprire certi film, è un luogo culturale e allo stesso tempo di incontro per l’industria cinematografica, dunque per i film che verranno».

 

Non a caso gli Industry Days è uno degli appuntamenti centrali di Locarno…

«Sono networking, un luogo d’incontro sempre più partecipato e apprezzato per la dimensione particolare di Locarno. Una dimensione umana e non frenetica, con incontri e rapporti di altissimo livello. A Cannes e Berlino c’è il mondo intero, ma nessuno ha tempo per nessuno; nei festival piccoli il tempo c’è, ma non c’è l’industria. A Locarno l’anno scorso c’erano oltre 200 venditori per un totale di mille accreditati. Trovi anche professionisti che non rappresentano alcun film in programma o in concorso, ma incontrano, conoscono, fanno rete, coltivano i rapporti… C’è equilibrio tra personalità, possibilità di vedere film e incontrare».

 

Insomma il Locarno Festival genera cinema?

«In senso largo sì, dà la possibilità ai film di essere visti e innesca possibili collaborazioni».

 

Negli altri 354 giorni dell’anno, oltre gli undici di Festival, cosa succede?

«Ogni anno è una sfida, nulla è garantito. Ed è durante il “non Festival” che si costruisce e mantiene vivo il Festival. Pochi giorni dopo la serata di chiusura siamo già a Toronto, per carpire i primi feedback sull’edizione appena conclusa. In generale si viaggia tantissimo, di continuo, per esserci, partecipare, conoscere, scoprire e costruire. Si fa conoscere Locarno, si conosce un’industria cinematografica di un determinato paese, si capiscono le tendenze globali, si mantengono rapporti istituzionali… Insomma, tutto l’anno va spremuto il più possibile per costruire quei dieci giorni. Anche per non credere di aver scoperto l’acqua calda quando magari in qualche parte del mondo potrebbero averla già bollita quattro volte».

 

Vivendolo così da vicino ci può dire come sta il cinema?

«Il cinema d’autore male. Le sale parlano. Sì, il VOD (video on demand, ndr) cresce, ma per vedere Batman, non un film iraniano… Le super-produzioni generano un’offerta esagerata e una conseguente confusione. Un film uccide l’altro e riuscire a stare in sala una settimana è un’impresa. Pare assurdo, ma c’è troppa offerta. Noi riceviamo 3 mila film all’anno, tre anni fa erano mille. A Toronto ne arrivano 7 mila. Non va bene… Anche in Paesi come la Francia, in cui si dice il cinema d’autore stia meglio, in realtà il cinema francese è tutelato da una maggiore fetta di mercato, ma anche lì la tendenza è lo smarrimento del cinema d’autore. E invece è essenziale che sopravviva, che resista e diventi anzi più forte. Deve trovare un nuovo pubblico che voglia e sappia interessarsi a questo messaggio culturale».

 

Ecco allora un’altra novità del 70° Locarno Festival: lo YAB, Young Advisory Board, il comitato consultivo composto da otto ragazzi tra i 16 e i 25 anni.

«È un modo per avvicinare i giovani, per ascoltarne pareri e critiche e per intercettare il loro orizzonte visivo. In tutti i Festival il pubblico è dai trenta in su, bisogna capire come essere meno mastodontici. La generazione futura è la sopravvivenza».

 

Dei Festival e del cinema d’autore?

«Diciamo che la sopravvivenza dei Festival è un buon primo passo per quella del cinema d’autore. Perché noi, a quel cinema, apriamo le porte».

 

 

Sobria consapevolezza e una ventata di nuovo. 

 

Al Locarno Festival numero 70, che andrà in scena dal 2-12 agosto, anticipato e posticipato dal nuovo ricchissimo programma de La Rotonda, le novità non mancheranno. Non tanto però rivolte a quel passato che la cifra tonda vorrebbe celebrare, quanto al futuro verso cui salpare, forti della propria storia. A festeggiare il Festival nell’anno del settantesimo ci hanno pensato La Posta, con un francobollo celebrativo, Swissminiatur, con l’allestimento di una mini Piazza Grande nel parco a tema di Melide, e la Banca Nazionale Svizzera, che la Piazza Grande l’ha invece stampata sulle nuove banconote da franchi. Il Festival invece ha deciso di puntare dritto al domani. Ha formato lo YAB (Young Advisory Board), un comitato di giovani interno all’organizzazione per capire dove e a cosa guardano le nuove generazioni, presto cambierà casa prendendo domicilio al nuovissimo Palazzo del Cinema di cui abbiamo già parlato in passato, si è regalato nuove sale (le tre del Palazzo e lo splendido restauro del GranRex, grazie al Leopard Club) e ha lanciato un concorso digitale chiedendo al pubblico di raccontare il film della propria vita (www.movieofmylife.ch): settanta secondi per raccontare quel film che per un motivo o per l’altro, per una location o un’interpretazione, una colonna sonora o una scena, ha tracciato un solco nella propria vita. 

Dulcis in fundo, a sorpresa, ad aprile sono state annunciate grosse novità ai vertici della famiglia pardata. Confermata la Direzione artistica di Carlo Chatrian, dal 1 settembre Mario Timbal lascerà la direzione operativa del Festival dopo nove anni, passando il testimone al suo attuale vice e Head of Sponsorship Raphaël Brunschwig. Al suo fianco Mattia Storni, Vice direttore operativo, e Amel Soudani, Responsabile della comunicazione e membro di Direzione.